giovedì 29 ottobre 2009

Il teatro racconta la scienza

Vita di Galileo: Bertolt Brecht porta in scena i conflitti degli uomini di ricerca

Non è facile parlare di scienza al grande pubblico. Ancora più difficile è parlare delle dinamiche socio-politiche legate alla scienza. Se poi si cerca di farlo in modo artistico (tramite ad esempio il cinema o il teatro), ci si imbatte in una sfida epica. Non a caso pochi sono i film e/o le opere teatrali che trattano di argomenti scientifici.

Una pietra miliare in questo campo è sicuramente l’opera “La vita di Galileo” dell’autore tedesco Bertolt Brecht. In maniera snella e molto efficace, Brecht racconta di un Galileo che, infiammato dalle sue stesse scoperte in campo astronomico, vuole approfondire e diffondere il nuovo modo di concepire l’universo. Tale nuova visione del mondo viene giudicata eretica dalla Chiesa che spinge Galileo a rinnegare tutte le sue scoperte, “abiurare”.

Il Galileo di Brecht è un personaggio molto complesso e a tratti eroico. Per esempio, eroica e di difficile interpretazione e’ proprio l’abiura. All’accusa dei suoi discepoli di essersi chinato al potere della Chiesa, Galileo risponde “meglio mani legate che vuote”. Non abiurare avrebbe portato alla condanna a morte di Galileo (come già era successo a Giordano Bruno) e, forse, l’intera ricerca astronomica di cui egli era esponente insostituibile avrebbe subito un crollo. Galileo, decidendo di abiurare e quindi di vivere, porta avanti di nascosto i suoi studi sul moto dei corpi celesti e alla fine riesce a consegnarli ad Andrea, un suo fidato discepolo, che è diretto in Olanda, il nido dei pensatori indipendenti di allora.

Andrea è un personaggio perfetto per cercare di capire la complessità di alcune scelte legate alla scienza. Andrea, cresciuto sotto l’influenza di Galileo, sviluppa un’amore genuino per il metodo analitico della scienza. Più tardi, giovane e pieno di entusiasmo per le nuove teorie astronomiche, decide di lasciare l’Italia: “devo andare, sono uno scienziato”, dice. Lo stesso Andrea, alla notizia dell’abiura di Galileo, avvilito afferma “Infelice il Paese che non ha eroi”. Soltanto più avanti nel testo, Galileo risponderà: “No. Infelice il Paese che ha bisogno di eroi”.

Non bisogna sforzarsi troppo per capire che questa vicenda vecchia di 400 anni è storia attuale. In Italia oggi di Galileo ce ne sono tanti, meno geniali ma altrettanto dediti, molti di più sono gli Andrea che lasciano l’Italia per luoghi dove alla ricerca scientifica viene dato maggiore valore. E se è vero che non esiste più il tribunale della santa inquisizione, è pur vero che chi decide di ridurre (o sarebbe meglio dire eliminare) i fondi alla ricerca compie un atto di censura “post-moderna”. Le forme sono diverse ma le problematiche che oggi il mondo della scienza deve affrontare in Italia sono fin troppo simili alle vicede galileane.

MARCELLO CACCIATO

"Vita di Galileo" di Bertolt Brecht è al momento in tournée in Italia, in una coproduzione Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati, per la regia di Antonio Calenda. Le date della tournée si possono trovare qui.

Nella foto di Tommaso Le Pera, Franco Branciaroli interpreta il ruolo di Galileo.

Una notte con Galileo


Quattrocento anni fa Galileo Galilei fu il primo ad osservare il cielo con uno strumento molto più potente dell’occhio umano: un cannocchiale. Le sue rivoluzionarie osservazioni hanno modificato per sempre la nostra concezione dell’universo, ponendo le basi dell’astronomia moderna, che da allora ha conosciuto uno sviluppo praticamente inarrestabile, specialmente nell’ultimo secolo. Il cannocchiale di Galileo era, ovviamente, quasi rudimentale rispetto ai potenti strumenti a disposizione degli astronomi contemporanei, in grado di scrutare i misteri nascosti e lontanissimi del cosmo. Ma cerchiamo di fare un passo indietro, e metterci nella posizione dello scienziato pisano per ripercorrere le sue grandiose scoperte.

Se i telescopi più all’avanguardia del momento permettono, nelle migliori condizioni, di distinguere addirittura un’automobile sulla Luna, il piccolo cannocchiale del 1609 aveva una risoluzione molto più bassa: i dettagli più piccoli che consentiva di distinguere sulla Luna, il corpo celeste a noi più vicino, erano grandi un centinaio di chilometri! Eppure questa risoluzione fu sufficiente a Galileo per osservare i crateri e le montagne lunari, e dimostrare che la Luna non è un corpo celeste incorruttibile e perfetto come si credeva all’epoca. Analogamente, osservando il Sole, egli scoprì delle macchie scure sulla sua superficie, le “macchie solari”: si tratta di zone della superficie del Sole temporaneamente più fredde della media, un processo ordinario per una stella. Galileo notò che queste macchie sono in evoluzione: compaiono e scompaiono in diversi punti. Anche il Sole, dunque, non è perfetto ed immutabile. Una nuova scienza era nata, basata sull’evidenza sperimentale e non su indiscutibili dogmi.

Altri oggetti delle prime osservazioni di Galileo furono i due maggiori pianeti del Sistema Solare, Giove e Saturno. Di Giove scoprì quattro satelliti naturali, chiamati “satelliti medicei”, che ruotano intorno al grande pianeta esattamente come la Luna ruota intorno alla Terra e la Terra intorno al Sole, a riprova della visione copernicana del mondo. Di Saturno invece fu il primo a vedere una strana struttura nebulosa che lo circonda: qualche anno dopo fu l’astronomo olandese Huygens a scoprire che si tratta dei famosi anelli, una struttura di polvere che ruota intorno al pianeta formando una specie di disco.

La scoperta di un grandissimo, e finora mai visto, ulteriore anello esterno di Saturno, realizzata tre settimane fa grazie al telescopio spaziale Spitzer, che osserva l’universo attraverso la luce infrarossa, ci ricorda che, anche quattro secoli dopo le prime osservazioni di questo pianeta, c’è ancora tantissimo da scoprire: non è mai troppo tardi per lasciarsi stupire dal cosmo.

Con questo approccio in mente, lo scorso fine settimana in tutto il mondo sono state celebrate le Notti Galileiane, un evento globale e parte integrante dell’Anno Internazionale del’Astronomia. Per riscoprire l’universo e imparare a guardarlo con nuovi strumenti, con nuovi occhi, oltre mille manifestazioni hanno offerto al pubblico la possibilità di osservare il cielo, in cui Giove, Saturno e la Luna erano tutti particolarmente ben visibili.

In Campania, lo Science Centre della Fondazione IDIS-Città della Scienza, a Napoli, ha aperto le porte per un weekend dedicato sia a Galileo che a Darwin, della cui nascita ricorre quest’anno il duecentesimo anniversario, mentre ad Acerno, in provincia di Salerno, l’associazione scientifico-culturale Emisfere ha organizzato uno Star Party con osservazione dei cosiddetti “oggetti Galileiani” nella splendida cornice dei Monti Picentini.

CLAUDIA MIGNONE

Nell'immagine (NASA), una rappresentazione artistica del nuovo, gigantesco anello scoperto intorno a Saturno grazie al telescopio spaziale Spitzer. L'anello inizia a circa 6 milioni di km dal pianeta, e si estende per oltre 12 milioni di km.

giovedì 22 ottobre 2009

L'eterogeneo giardino cosmico


Negli anni gli astronomi hanno escogitato tecniche sempre nuove per osservare i dettagli della volta celeste. Una tecnica che ha riscontrato enorme successo è quella delle “survey”, o cataloghi, di galassie. Si tratta di osservazioni di porzioni più o meno grandi di cielo ai fini di individuare sorgenti astronomiche, specialmente quelle più deboli e lontane.

Il risultato è una mappa del cielo che, anziché descrivere la posizione di pianeti e costellazioni, ricostruisce la distribuzione di galassie nell’universo. Per ogni galassia viene misurata la luce emessa, la distanza da noi e altre proprietà che poi vengono usate dagli astrofisici per studiare possibili modelli di formazione ed evoluzione delle galassie. Nell’ultimo decennio questo settore dell’astronomia si è sviluppato parecchio grazie al proliferare di survey sempre più accurate.

Una delle scoperte condivise all’unanimità da tutte queste survey è che le galassie non sono distribuite nell’universo in modo omogeneo ma tendono a raggruparsi in strutture che prendono il nome di gruppi o ammassi di galassie. Se si guarda a regioni veramente estese dell’universo, gli stessi ammassi sembrano fare parte di una distribuzione ancora più complicata fatta di superammassi, filamenti e regioni vuote (si veda figura allegata).

Passare da queste osservazioni a dettagliati modelli per la spiegazione dei processi di formazione ed evoluzione delle galassie non è affatto semplice. Il concetto di base però è del tutto familiare. Si pensi ad una survey di galassie come ad una foto di una pianta ricca di fiori. Alcuni fiori non sono ancora sbocciati, altri sono nel pieno del loro splendore e altri sono già morti. In tale contesto, la nostra mente traccia senza difficoltà una sequenza evolutiva. Le galassie nelle survey sono come i fiori nelle piante, ognuna ad un diverso stadio evolutivo. È compito delle teorie astrofisiche descrivere come una galassia “sboccia” ed evolve. Al momento, nella comunità scientifica c’è un consenso generale sui fattori che portano alla nascita di una galassia ma le sue fasi evolutive sono ancora oggetto di acceso dibattito.

MARCELLO CACCIATO


In quest'immagine della Sloan Digital Sky Survey (SDSS), la Terra è al centro e ogni punto è una galassia. Le galassie sono colorate a seconda dell’età delle loro stelle (il rosso indica le galassie con stelle vecchie). Lo zoom nel riquadro a destra mostra un ammasso di galassie.

giovedì 15 ottobre 2009

Il Mediterraneo è un laboratorio

Intervista a un giovane ricercatore napoletano su un esperimento che andrà a caccia di neutrini

La fisica delle particelle elementari va in scena nel Mar Mediterraneo, che sarà prossimamente teatro di un ambizioso esperimento europeo, attualmente in fase di progettazione: un telescopio per neutrini. Per cercare queste elusive particelle e studiare le informazioni che esse trasportano riguardo al cosmo, i fisici utilizzeranno un enorme dispositivo situato sul fondo del mare. Questa struttura avrà un volume di almeno un chilometro cubo, da cui il nome del progetto: KM3Net (diminutivo di KM3 Neutrino Telescope).

Per scoprire i dettagli di questo sofisticato esperimento abbiamo incontrato Stefano Russo, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Fisiche dell’Università degli Studi Federico II e presso la Sezione di Napoli dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

KM3NeT è molto diverso da un telescopio tradizionale: a cosa serve l’acqua del mare?
I neutrini sono particelle che interagiscono poco con la materia, il che li rende da un lato interessanti, in quanto ci consente di scrutare enormi distanze, ma dall’altro diventa un problema: come fare a catturarli? La soluzione è osservarli indirettamente. La Terra viene attraversata continuamente da un’enorme quantità di neutrini provenienti dal cosmo. Se anche uno solo di questi, mentre viaggia all’interno della Terra, interagisce con la materia da cui essa è formata, produce delle altre particelle, dette muoni. Ed è qui che entra in gioco l’acqua del mare. Per osservare i muoni prodotti dai neutrini, si cerca di individuare la luce (detta radiazione Cherenkov) che queste particelle emettono in particolari condizioni, come, per esempio, quando attraversano un materiale trasparente: l’acqua, appunto.

Non si può costruire una vasca in laboratorio invece che in mare?
Anche usando tecnologie all’avanguardia, la probabilità di intercettare un neutrino cosmico è comunque molto bassa: si parla di pochissimi eventi all’anno! Per questo occorre tenere sotto controllo un grande volume di acqua, un chilometro cubo almeno, il che non é possibile in un normale laboratorio. Inoltre, i nostri strumenti andranno posizionati sul fondo marino, a 4000 metri di profondità, dove le acque sono più buie: questo riduce al massimo la contaminazione dovuta ad altre fonti di luce, per essere sicuri che quella che osserveremo è dovuta proprio ai neutrini.

Una tecnologia davvero interessante, e una struttura insolita per un telescopio…
Non è poi così insolita, considerato che simili progetti esistono anche altrove nel mondo. Ma KM3NeT è l’unico ad essere così grande, insieme all’analogo esperimento IceCube, realizzato in Antartide da un consorzio con a capo istituti di ricerca statunitensi: utilizza il ghiaccio, anziché l’acqua del mare, ma il principio è lo stesso. E non si tratta di una ripetizione: IceCube, situato nell’emisfero australe, è sensibile ai neutrini che arrivano dall’emisfero boreale e, dopo aver attraversato la Terra, raggiungono il telescopio in Antartide. Nello stesso modo, KM3NeT riceve le particelle che investono la Terra dall’emisfero australe: in questo modo, la combinazione dei due esperimenti può monitorare tutto il cielo.

Oltre all’acqua del mare, quali sono gli altri elementi che compongono questo telescopio?
Gli elementi fondamentali sono delle torri, simili a tralicci, alte un chilometro e poste sul fondo del mare. Per coprire il volume desiderato, distribuiremo queste torri su una superficie di un chilometro quadrato. Alle estremità di queste torri si trovano degli strumenti che catturano la luce. Tecniche sofisticate di analisi dati possono, dalla luce, risalire alla particella che l’ha prodotta e alla sua direzione nel cielo.

Dove sorgerà l’esperimento?
Ancora non è stato deciso. KM3NeT nasce dalla fusione di tre progetti europei, ciascuno dei quali ha proposto un particolare sito nel Mediterraneo: uno nel Mar Ligure, di fronte alla città di Tolone, in Francia, un altro nello Ionio Orientale, vicino alla città greca di Pylos, ed infine un terzo nello Ionio Occidentale, nei pressi della punta estrema della Sicilia, 100 km a sud di Catania. Nel sito italiano testeremo prossimamente uno dei prototipi per le torri, al cui progetto e realizzazione ha collaborato il nostro gruppo di Napoli.

Ecco, parliamo dell’attività del gruppo napoletano: di cosa vi occupate nell’ambito dell’esperimento?
Innanzitutto della parte hardware: insieme ad altri gruppi italiani, siamo responsabili della progettazione e realizzazione della struttura meccanica dell’esperimento, nonché dell’elettronica legata all’acquisizione e all’invio a terra dei dati raccolti in mare. Ci occupiamo, in parte, anche di simulazioni e, in futuro, dell’analisi dei dati. Ricordiamo che, come di prassi nel campo della fisica delle particelle elementari, si tratta di una grandissima collaborazione: 40 gruppi provenienti da 10 diversi paesi europei fanno parte del consorzio, e solo il contributo italiano fa capo a istituti e università in 12 città sparse sulla penisola.

Qual è la più grande difficoltà che incontrano i fisici nell’ambito di un esperimento così innovativo?
Dal punto di vista tecnologico, che è poi quello in cui il nostro gruppo è maggiormente coinvolto, la sfida principale è costituita dal fatto che l’esperimento dovrà essere operativo nelle profondità marine, dove l’acqua è salata e la pressione molto elevata. In gergo parliamo di ‘ambiente ostile’. Inoltre, data la posizione, gli strumenti devono funzionare perfettamente, perché una volta installati non è possibile intervenire con operazioni di manutenzione. In un certo senso, l’impegno è molto simile a quello richiesto quando si progettano e realizzano esperimenti spaziali, come PAMELA, un satellite per la ricerca dell’antimateria, a cui il nostro gruppo ha lavorato e che ha ottenuto dei risultati particolarmente significativi all’inizio del 2009.

La speranza di ottenere risultati altrettanto interessanti spinge quindi a superare le sfide tecnologiche?
Certamente: le osservazioni di KM3NeT, una volta operativo, chiariranno molti dubbi su alcuni meccanismi fisici che avvengono sia nella nostra che in altre galassie e che ancora non sono stati compresi a fondo. Ma oltre all’aspetto astrofisico, anche quello puramente tecnologico è avvincente: un progetto come il nostro sviluppa elementi all’avanguardia, partendo da quelli già disponibili sul mercato e migliorandoli. C’è un continuo travaso di informazioni tra ricerca e industria, in entrambe le direzioni, sia per quanto riguarda l’elettronica della trasmissione dati che la meccanica di precisione. In fondo, le tecnologie da noi utilizzate sono molto simili a quelle delle telecomunicazioni: cavi sottomarini, fibre ottiche... Le conoscenze acquisite avranno anche una ricaduta locale immediata, essendo di sicuro interesse per le industrie.

CLAUDIA MIGNONE

L'immagine di M. Kraan (Nikhef, Amsterdam) è una rappresentazione artistica di una possibile configurazione per il telescopio sottomarino a neutrini KM3NeT.

Il cosmo attraverso i neutrini


I telescopi ordinari studiano l’universo osservando la luce che proviene da stelle e galassie. Anche i telescopi che lavorano ad altre lunghezze d’onda, dalle onde radio e le microonde fino ai raggi X e gamma, si basano sullo stesso principio: catturano i fotoni, ovvero le particelle di cui è costituita la luce. I fotoni trasportano informazioni sulle sorgenti che li hanno prodotti: analizzando la luce emessa da oggetti astronomici (stelle, nubi, galassie) gli astronomi possono dedurre le loro proprietà, come la massa, le dimensioni, l’energia.

Oltre ai fotoni, anche altri tipi di particelle si comportano da messaggeri cosmici: tra essi, i neutrini. Si tratta di particelle prive di carica elettrica (da cui il nome) che viaggiano alla velocità della luce e che hanno una massa estremamente piccola. Molte sorgenti astronomiche, sia nella nostra che in altre galassie, producono neutrini, oltre che fotoni: studiare l’universo attraverso queste particelle rappresenta un approccio complementare a quello offerto dall’astronomia tradizionale.

Inoltre, i fotoni hanno un’elevata probabilità di essere assorbiti da atomi o da altri fotoni incontrati durante il viaggio che li porta fino a noi: se un fotone viene assorbito, l’informazione che esso trasporta è irrimediabilmente perduta. I neutrini, al contrario, godono di un’interessante proprietà: in gergo scientifico si dice che ‘interagiscono debolmente’ con la materia, ovvero hanno una probabilità di essere assorbiti molto bassa, di gran lunga inferiore a quella dei fotoni. Per questo motivo, i neutrini possono percorrere, indisturbati, distanze molto maggiori rispetto alla luce. Per noi che li osserviamo sulla Terra, ciò significa che attraverso i neutrini possiamo studiare sorgenti situate a distanze cosmiche molto più grandi: in sostanza, i neutrini ci permettono di guardare ancora più lontano.

L’astronomia a neutrini è molto recente, date anche le difficoltà tecnologiche insite nella rivelazione di queste particelle: finora sono stati ‘osservati’ neutrini provenienti solamente dal Sole e da una supernova esplosa nel 1987. Ma si tratta, allo stesso tempo, di un campo in rapido sviluppo, con svariati ambiziosi esperimenti in corso di progettazione e realizzazione in tutto il mondo.

Uno degli obiettivi principali dei telescopi a neutrini è lo studio dei cosiddetti raggi cosmici, particelle energetiche provenienti da un’ampia gamma di oggetti astronomici (supernovae, lampi di raggi gamma, nuclei galattici attivi), le cui proprietà sono ancora dibattute. Poiché nella maggior parte dei casi i raggi cosmici producono neutrini, l’osservazione di questi ultimi è cruciale in questo ambito. Altro campo in cui lo studio dei neutrini riveste estrema importanza è la ricerca della materia oscura che pervade l’universo, ma della cui natura si sa ancora ben poco.

CLAUDIA MIGNONE

Un'immagine della supernova 1987A, chiamata così in quanto è stata la prima ad essere scoperta nel 1987. Quest'immagine combina osservazioni fatte ai raggi X (bianco, viola) e in ottico (rosso, arancio). Si tratta della prima sorgente extragalattica (ma anche extrasolare!) di neutrini mai osservata. (X-ray: NASA/CXC/PSU/S.Park & D.Burrows.; Optical: NASA/STScI/CfA/P.Challis)

giovedì 8 ottobre 2009

Il Nobel per la fisica "cattura" la luce


È dello scorso martedì la notizia che il Premio Nobel per la Fisica 2009 è stato conferito a Willard S. Boyle e George E. Smith, padri della fotografia digitale. Nel 1969, i due scienziati dei Bell Laboratories, nel New Jersey, Stati Uniti, inventarono un dispositivo per catturare la luce senza l’uso della pellicola fotografica: il cosiddetto CCD (dall’inglese Charge-Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica).

La tecnologia del CCD sfrutta l'effetto fotoelettrico, mediante il quale la luce viene trasformata in segnali elettrici. Per la scoperta dell’effetto fotoelettrico fu insignito del Nobel Albert Einstein nel 1921. La sfida di Boyle e Smith è stata quella di convertire l’effetto in un’applicazione pratica, mettendo a punto un sensore che catturasse la luce in tantissimi punti (detti pixel) e la trasformasse, in tempi brevissimi, in segnali elettrici da trasportare, riprodurre su un monitor o immagazzinare in un file.

Il CCD ha rivoluzionato per sempre il nostro modo di percepire e vivere la fotografia: è il cuore delle decine di milioni di fotocamere digitali prodotte nel mondo, incluse quelle all’interno di molti telefoni cellulari ed altri dispositivi elettronici. Ma una rivoluzione forse ancora più significativa è stata apportata dalla fotografia digitale nella scienza, in particolare nell’astronomia, disciplina che vive delle immagini del cielo.

Tutti i telescopi professionali sono ormai dotati di sensori digitali, estremamente più sensibili rispetto alle vecchie lastre fotografiche, usate dagli astronomi fino a qualche decennio fa; inoltre, un CCD può essere riutilizzato molte volte, e il segnale che produce come output, essendo in forma digitale, è già pronto per essere salvato ed analizzato dai computer. Senza questa nuova tecnologia, non sarebbe stato neanche pensabile realizzare, ad esempio, gli immensi cataloghi contenenti informazioni dettagliate su centinaia di milioni di galassie lontanissime, che hanno permesso agli astronomi di comprendere sempre meglio le proprietà dell’Universo.

A dividere il più prestigioso dei riconoscimenti scientifici con Boyle e Smith è il fisico Charles K. Kao, per il suo lavoro sulla trasmissione dei segnali luminosi attraverso le fibre ottiche. Anche le fibre ottiche, come il CCD, hanno contribuito alla rivoluzione digitale, consentendo di inviare e ricevere dati ed informazioni in tempi sempre più brevi: senza di esse, Internet come lo conosciamo oggi non potrebbe esistere.

È interessante notare come, nell’Anno Internazionale dell’Astronomia 2009, il Nobel per la Fisica abbia premiato tre scienziati la cui ricerca ha avuto come oggetto la luce e ha prodotto strumenti che si sono rivelati di vitale importanza per gli astronomi, sia professionisti che amatoriali.

Per ulteriori informazioni: www.nobelprize.org

CLAUDIA MIGNONE

L'immagine (NASA) mostra un CCD: piccolissimo ma super potente.

giovedì 1 ottobre 2009

Gli ingredienti dell'universo


La cosmologia è il ramo dell'astronomia che studia l'origine dell'universo e le regole che lo governano. In quanto disciplina scientifica, la cosmologia conta meno di un secolo di vita. Nonostante la sua giovane età, è riuscita a stabilire un paradigma condiviso da quasi tutti i cosmologi del mondo. Secondo questo paradigma, l’universo in cui viviamo si sta espandendo, e questa espansione è accelerata: un universo in cui le galassie si allontanano le une dalle altre con velocità sempre crescente.

Per potere spiegare tale espansione accelerata, i cosmologi hanno bisogno di ipotizzare l’esistenza di due componenti “esotiche”: le cosiddette materia oscura ed energia oscura. In questo contesto, il termine esotico si riferisce al fatto che tale materia/energia non è mai stata osservata direttamente, benché ne siano evidenti gli effetti indiretti su molte osservazioni astronomiche. Una delle frontiere più attuali della fisica particellare è proprio quella di riuscire ad osservare le particelle di cui sono composte la materia e l’energia oscura.

A rendere ancora più interessante questa “oscura” teoria è il fatto che, su scale cosmologiche, ovvero estremamente più grandi della nostra galassia, materia ed energia oscura costituiscono la quasi totalità dell’universo. Al contrario, la materia ordinaria contribuisce solo per il 4% al budget totale dell’universo, scoperta che può risultare ostica in un primo momento visto che siamo abituati a vivere in un mondo fatto soltanto di materia ordinaria.

Un modo efficace di visualizzare questo concetto è quello di pensare ad una piramide in cui diverse parti rappresentano diverse tipologie di materia/energia, come nell’immagine qui accanto. La base della piramide (che ne costituisce la maggior parte del volume) è occupata da energia e materia oscura, che ammontano rispettivamente a circa il settanta per cento e il venticinque per cento dell’universo. Segue la materia ordinaria, per lo piu' invisibile perche' non emette né luce propria né riflessa, e ancora più in cima in piccolissime quantità l’idrogeno, l’elio e tutti gli altri atomi, costituenti della stessa natura delle cose che ci circondano e di cui siamo fatti noi stessi.

MARCELLO CACCIATO

La rappresentazione grafica dell'abbondanze relative di materia/energia nell'universo è tratta da "The view from the center of the universe", di J. Primack e N. Abrams N., 2006.