giovedì 15 ottobre 2009

Il Mediterraneo è un laboratorio

Intervista a un giovane ricercatore napoletano su un esperimento che andrà a caccia di neutrini

La fisica delle particelle elementari va in scena nel Mar Mediterraneo, che sarà prossimamente teatro di un ambizioso esperimento europeo, attualmente in fase di progettazione: un telescopio per neutrini. Per cercare queste elusive particelle e studiare le informazioni che esse trasportano riguardo al cosmo, i fisici utilizzeranno un enorme dispositivo situato sul fondo del mare. Questa struttura avrà un volume di almeno un chilometro cubo, da cui il nome del progetto: KM3Net (diminutivo di KM3 Neutrino Telescope).

Per scoprire i dettagli di questo sofisticato esperimento abbiamo incontrato Stefano Russo, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Fisiche dell’Università degli Studi Federico II e presso la Sezione di Napoli dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

KM3NeT è molto diverso da un telescopio tradizionale: a cosa serve l’acqua del mare?
I neutrini sono particelle che interagiscono poco con la materia, il che li rende da un lato interessanti, in quanto ci consente di scrutare enormi distanze, ma dall’altro diventa un problema: come fare a catturarli? La soluzione è osservarli indirettamente. La Terra viene attraversata continuamente da un’enorme quantità di neutrini provenienti dal cosmo. Se anche uno solo di questi, mentre viaggia all’interno della Terra, interagisce con la materia da cui essa è formata, produce delle altre particelle, dette muoni. Ed è qui che entra in gioco l’acqua del mare. Per osservare i muoni prodotti dai neutrini, si cerca di individuare la luce (detta radiazione Cherenkov) che queste particelle emettono in particolari condizioni, come, per esempio, quando attraversano un materiale trasparente: l’acqua, appunto.

Non si può costruire una vasca in laboratorio invece che in mare?
Anche usando tecnologie all’avanguardia, la probabilità di intercettare un neutrino cosmico è comunque molto bassa: si parla di pochissimi eventi all’anno! Per questo occorre tenere sotto controllo un grande volume di acqua, un chilometro cubo almeno, il che non é possibile in un normale laboratorio. Inoltre, i nostri strumenti andranno posizionati sul fondo marino, a 4000 metri di profondità, dove le acque sono più buie: questo riduce al massimo la contaminazione dovuta ad altre fonti di luce, per essere sicuri che quella che osserveremo è dovuta proprio ai neutrini.

Una tecnologia davvero interessante, e una struttura insolita per un telescopio…
Non è poi così insolita, considerato che simili progetti esistono anche altrove nel mondo. Ma KM3NeT è l’unico ad essere così grande, insieme all’analogo esperimento IceCube, realizzato in Antartide da un consorzio con a capo istituti di ricerca statunitensi: utilizza il ghiaccio, anziché l’acqua del mare, ma il principio è lo stesso. E non si tratta di una ripetizione: IceCube, situato nell’emisfero australe, è sensibile ai neutrini che arrivano dall’emisfero boreale e, dopo aver attraversato la Terra, raggiungono il telescopio in Antartide. Nello stesso modo, KM3NeT riceve le particelle che investono la Terra dall’emisfero australe: in questo modo, la combinazione dei due esperimenti può monitorare tutto il cielo.

Oltre all’acqua del mare, quali sono gli altri elementi che compongono questo telescopio?
Gli elementi fondamentali sono delle torri, simili a tralicci, alte un chilometro e poste sul fondo del mare. Per coprire il volume desiderato, distribuiremo queste torri su una superficie di un chilometro quadrato. Alle estremità di queste torri si trovano degli strumenti che catturano la luce. Tecniche sofisticate di analisi dati possono, dalla luce, risalire alla particella che l’ha prodotta e alla sua direzione nel cielo.

Dove sorgerà l’esperimento?
Ancora non è stato deciso. KM3NeT nasce dalla fusione di tre progetti europei, ciascuno dei quali ha proposto un particolare sito nel Mediterraneo: uno nel Mar Ligure, di fronte alla città di Tolone, in Francia, un altro nello Ionio Orientale, vicino alla città greca di Pylos, ed infine un terzo nello Ionio Occidentale, nei pressi della punta estrema della Sicilia, 100 km a sud di Catania. Nel sito italiano testeremo prossimamente uno dei prototipi per le torri, al cui progetto e realizzazione ha collaborato il nostro gruppo di Napoli.

Ecco, parliamo dell’attività del gruppo napoletano: di cosa vi occupate nell’ambito dell’esperimento?
Innanzitutto della parte hardware: insieme ad altri gruppi italiani, siamo responsabili della progettazione e realizzazione della struttura meccanica dell’esperimento, nonché dell’elettronica legata all’acquisizione e all’invio a terra dei dati raccolti in mare. Ci occupiamo, in parte, anche di simulazioni e, in futuro, dell’analisi dei dati. Ricordiamo che, come di prassi nel campo della fisica delle particelle elementari, si tratta di una grandissima collaborazione: 40 gruppi provenienti da 10 diversi paesi europei fanno parte del consorzio, e solo il contributo italiano fa capo a istituti e università in 12 città sparse sulla penisola.

Qual è la più grande difficoltà che incontrano i fisici nell’ambito di un esperimento così innovativo?
Dal punto di vista tecnologico, che è poi quello in cui il nostro gruppo è maggiormente coinvolto, la sfida principale è costituita dal fatto che l’esperimento dovrà essere operativo nelle profondità marine, dove l’acqua è salata e la pressione molto elevata. In gergo parliamo di ‘ambiente ostile’. Inoltre, data la posizione, gli strumenti devono funzionare perfettamente, perché una volta installati non è possibile intervenire con operazioni di manutenzione. In un certo senso, l’impegno è molto simile a quello richiesto quando si progettano e realizzano esperimenti spaziali, come PAMELA, un satellite per la ricerca dell’antimateria, a cui il nostro gruppo ha lavorato e che ha ottenuto dei risultati particolarmente significativi all’inizio del 2009.

La speranza di ottenere risultati altrettanto interessanti spinge quindi a superare le sfide tecnologiche?
Certamente: le osservazioni di KM3NeT, una volta operativo, chiariranno molti dubbi su alcuni meccanismi fisici che avvengono sia nella nostra che in altre galassie e che ancora non sono stati compresi a fondo. Ma oltre all’aspetto astrofisico, anche quello puramente tecnologico è avvincente: un progetto come il nostro sviluppa elementi all’avanguardia, partendo da quelli già disponibili sul mercato e migliorandoli. C’è un continuo travaso di informazioni tra ricerca e industria, in entrambe le direzioni, sia per quanto riguarda l’elettronica della trasmissione dati che la meccanica di precisione. In fondo, le tecnologie da noi utilizzate sono molto simili a quelle delle telecomunicazioni: cavi sottomarini, fibre ottiche... Le conoscenze acquisite avranno anche una ricaduta locale immediata, essendo di sicuro interesse per le industrie.

CLAUDIA MIGNONE

L'immagine di M. Kraan (Nikhef, Amsterdam) è una rappresentazione artistica di una possibile configurazione per il telescopio sottomarino a neutrini KM3NeT.

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