giovedì 26 marzo 2009

Telescopi spaziali: presente e futuro


Sta per compiere 19 anni l’Hubble Space Telescope (HST), il telescopio spaziale dedicato all’astronomo statunitense Edwin Hubble: lanciato il 24 aprile 1990 e da allora in orbita intorno alla Terra, ha realizzato il sogno degli astronomi di superare i limiti imposti dall’atmosfera alle osservazioni.

HST è piccolo rispetto ai giganteschi telescopi costruiti negli osservatori più all’avanguardia: questi hanno specchi con diametro di 8-10 metri, mentre quello del telescopio spaziale, a causa delle dimensioni dello Space Shuttle che lo ha trasportato, è di appena 2,4 metri. È tuttavia la sua posizione a renderlo uno strumento straordinario: trovandosi in orbita a 600 km dalla Terra, non è soggetto al seeing, il fenomeno di sfuocamento delle immagini dovuto alle turbolenze dell’atmosfera. Le immagini ottenute dal telescopio spaziale hanno quindi una risoluzione che le osservazioni da terra non possono raggiungere, permettendo di studiare dettagli fino ad allora ignoti.

Grazie a HST, adesso si conosce molto più a fondo la vita delle stelle, dalla loro formazione alla loro morte, è stato possibile analizzare le galassie vicine con grande precisione, confermando l’ipotesi che al centro di ogni galassia si trova un buco nero super-massiccio, e sono state osservate galassie molto fioche ed estremamente lontane, distanti fino a 12 miliardi di anni luce e formatesi poco dopo il Big Bang. Questi e molti altri risultati hanno cambiato per sempre il nostro modo di vedere l’universo e l’evoluzione delle sue varie componenti.

Un progetto come questo ha però i suoi inconvenienti, a cominciare dal costo (svariati miliardi di dollari) che ha richiesto una collaborazione della NASA con l’Agenzia Spaziale Europea, l’ESA. È stato necessario eseguire più di una volta missioni di manutenzione con astronauti a bordo: la prima è servita a correggere un critico errore di lavorazione dello specchio; anche per mantenere HST in orbita occorre inviare periodicamente missioni di servizio, dispendiose e pericolose. Per questo la vita del satellite, già prolungata oltre i 15 anni previsti, non durerà molto ancora, ed entro il 2012 il progetto sarà interrotto.

Ma, ancor prima del lancio di HST, il suo successore era già stato pianificato: il telescopio spaziale James Webb (JWST), insolitamente intitolato ad un dirigente della NASA degli anni ’60. Anche in questo caso si tratta di una collaborazione tra NASA ed ESA, dal costo di almeno 4,5 miliardi di dollari, il cui lancio è previsto per il 2013. Nuove tecnologie permetteranno allo specchio di avere un diametro di 6 metri, molto più grande rispetto a quello di HST: potrà entrare nello Shuttle ripiegato su se stesso e si aprirà soltanto quando sarà in orbita. Un’altra differenza: JWST non orbiterà intorno alla Terra, ma insieme alla Terra intorno al Sole. Il nostro pianeta sarà al centro tra il Sole ed il satellite, garantendo a quest’ultimo un totale oscuramento dai raggi solari. Benché conveniente per le osservazioni, ciò vuol dire che il telescopio sarà lontano un milione e mezzo di km da noi, rendendo la possibilità di una missione di manutenzione del tutto impraticabile. Una volta lanciato, JWST deve funzionare perfettamente: non c’è spazio per eventuali errori.

Il successore di HST è stato progettato con obiettivi ancora più ambiziosi: fra gli altri, osservare gli oggetti più distanti dell’Universo, le primissime galassie che si sono formate. Ma probabilmente, come succede spesso in questo campo, le scoperte più affascinati saranno quelle inaspettate.

CLAUDIA MIGNONE

A sinistra il Telescopio Spaziale Hubble in orbita intorno alla Terra, e a destra il progetto del suo successore, James Webb Space Telescope, che sarà lanciato nel 2013. Immagini gentilmente messe a disposizione dall'Agenzia Spaziale Europea (ESA).

giovedì 19 marzo 2009

L’arte e il cielo si incontrano

Inaugurazione presso la Galleria Monteoliveto in occasione dell’equinozio di primavera

L’equinozio di primavera è uno dei due giorni all’anno in cui, in tutto il mondo, il dì e la notte hanno la stessa durata e il Sole sorge esattamente a Est e tramonta esattamente a Ovest (per maggiori dettagli, si veda l’intervento in fondo alla pagina). La data dell’equinozio varia di anno in anno, principalmente poiché la Terra non impiega esattamente 365 giorni a completare la sua orbita intorno al sole, ma circa sei ore in più. Questo effetto è bilanciato dall’introduzione dell’anno bisestile ogni quattro anni, e quindi fa oscillare la data dell’equinozio tra il 20 ed il 21 marzo. Inoltre, ogni anno l’equinozio cade 20 minuti prima rispetto all’anno precedente, a causa della precessione degli equinozi, un moto millenario della Terra dovuto all’attrazione combinata della Luna e degli altri pianeti.

Quest’anno l’equinozio di primavera cade domani, venerdì 20 marzo, alle ore 11:44. In occasione dell’equinozio, la Galleria Monteoliveto di Napoli celebra l’Anno Internazionale dell’Astronomia inaugurando una mostra collettiva dal titolo “L’arte contemporanea per la riscoperta del cielo”. Si tratta di un’esposizione che presenta opere ispirate all’universo, scaturite dalla contemplazione dei fenomeni celesti e del ruolo dell’uomo nel contesto siderale.

Tredici artisti (Stefania Ancarani, Aurora Aspide, Cherny, Gianpaolo Cono, Stefano Di Maulo, Paolo Granato, Massimiliano Lattanzi, Massimo Maisto, Ilaria Parente, Lisa Perini, Vanessa Pignalosa, Véronique Pignatta, Gabriella Russo) hanno dedicato le loro opere all’evento. Si tratta di micro-sculture, dipinti a olio e in acrilico, tecniche miste, digital-art, ceramiche “lunatiche”, fotografia e installazioni. Sarà inoltre presente Massimiliano Lattanzi, la cui installazione “Yin-Yang Celeste” è stata presentata presso la sede dell’UNESCO, durante l’inaugurazione ufficiale dell’Anno Internazionale dell’Astronomia tenutasi in gennaio.

La mostra si apre domani, alle 11:44, esattamente in coincidenza con l’equinozio di primavera. L’inaugurazione sarà un evento non-stop che durerà per tutta la giornata; l’esposizione resterà aperta fino al 6 aprile.

In rete con l’evento di Napoli, la sede di Nizza della Galleria Monteoliveto ospita una mostra di Stefano Di Maulo dal titolo “Fourmis 2070#”, con una installazione che vede infaticabili formiche viaggiare su sfondi coloratissimi e focalizza l’attenzione degli spettatori su mondi nascosti e spesso dimenticati.

CLAUDIA MIGNONE

“L’arte contemporanea per la riscoperta del cielo”
GALLERIA MONTEOLIVETO
Piazza Monteoliveto 11
80134 – Napoli
tel. 081 19569414 – info: 338 7679286
http://www.galleriamonteoliveto.it/

Immagine: Paolo Granato, Senza Titolo

Equinozi, solstizi e l’alternanza delle stagioni


La posizione e i movimenti della Terra nel Sistema Solare sono da sempre stati oggetto di indagine scientifica: la visione geocentrica, secondo cui il nostro pianeta si trova al centro dell’Universo, dopo aver dominato a lungo fu definitivamente soppiantata nel XVI secolo, quando Niccolò Copernico sviluppò la teoria eliocentrica, che vede il Sole al centro di un sistema di pianeti che orbitano intorno ad esso. Circa 50 anni dopo, Johannes Kepler descrisse matematicamente i moti dei pianeti intorno al Sole, e più tardi Isaac Newton dimostrò la validità delle cosiddette Leggi di Keplero nell’ambito della teoria della gravitazione universale.

In quest’ottica, i pianeti, Terra inclusa, descrivono un’orbita ellittica intorno al Sole, che si trova in uno dei due fuochi dell’ellisse. In particolare, il nostro pianeta impiega poco più di 365 giorni a percorrere l’intera orbita: questo periodo stabilisce la durata dell’anno. La distanza media tra Terra e Sole è di quasi 150 milioni di km, e varia a causa della forma ellittica dell’orbita: si dice che la Terra si trova in perielio quando è alla sua minima distanza dal Sole, e in afelio quando la distanza é massima.

Contrariamente a quanto si potrebbe dedurre, questa variazione di distanza non ha alcun effetto sull’alternarsi delle stagioni, che è invece dovuto aIl’inclinazione dell’asse terrestre: l’orbita della Terra si trova su un piano, detto piano dell’eclittica, ma oltre a ruotare intorno al Sole il nostro pianeta ruota anche intorno a sé stesso. Se l’asse della rotazione terrestre fosse perpendicolare al piano dell’eclittica, in ogni punto della Terra e per tutto l’anno si avrebbero 12 ore di luce e 12 ore di buio, e l’inclinazione dei raggi solari sarebbe la stessa ogni giorno. L’asse terrestre è invece inclinato rispetto al piano dell’eclittica, ed è questo che causa la diversa lunghezza del dì e della notte di luogo in luogo e di giorno in giorno durante l’anno. Inoltre, anche l’inclinazione con cui i raggi del Sole colpiscono un punto specifico della Terra cambia a seconda della sua posizione e del periodo dell’anno, ed ha un massimo ed un minimo ben precisi. Un maggior numero di ore di luce, insieme ad una minore inclinazione dei raggi solari, fanno sì che quel punto della Terra riceva più calore ed identificano le cosiddette stagioni calde (primavera ed estate); meno ore di luce e raggi solari molto inclinati corrispondono alle stagioni fredde (autunno, inverno).

Due giorni all’anno, tuttavia, il dì e la notte hanno la stessa durata in ogni luogo: si tratta degli equinozi. A partire dall’equinozio di primavera, che cade il 20-21 marzo, il numero di ore diurne è maggiore di quello di ore notturne; con l’arrivo dell’equinozio d’autunno, che cade invece il 22-23 settembre, la situazione si inverte e il dì diventa più breve della notte. Intervallati equamente tra i due equinozi, vi sono i due solstizi: il solstizio d’estate (20-21 giugno) è il giorno con il massimo numero di ore diurne e la massima elevazione del Sole rispetto all’orizzonte, mentre il solstizio d’inverno (21-22 dicembre) é il giorno con il dì più breve di tutto l’anno e la minima elevazione del Sole nel cielo.

L’alternarsi delle stagioni risulta chiaramente invertito nell’emisfero meridionale, dove i due solstizi corrispondono alle condizioni opposte. Condizioni estreme si verificano in prossimità dei poli, dove il Sole si mantiene al di sopra (o al di sotto) dell’orizzonte per tutto l’arco della giornata e si può osservare il cosiddetto “sole di mezzanotte”: in particolare, il Polo Nord è caratterizzato da un dì lungo sei mesi, che dura dall’equinozio di primavera a quello d’autunno, seguito da altri sei mesi di notte, e viceversa per quanto riguarda il Polo Sud.

CLAUDIA MIGNONE

In questa sequenza di fotografie, riprese in Norvegia in diversi momenti della giornata, si può ammirare il sole di mezzanotte. Immagine tratta da www.blogalileo.com.

giovedì 12 marzo 2009

Universo misterioso: i buchi neri


I vari processi fisici di formazione delle strutture hanno portato alla nascita di oggetti molto diversi nell'universo in cui viviamo: pianeti, stelle, galassie. La teoria della relatività generale, pubblicata da Einstein nel 1915, prevede anche l'esistenza di peculiari oggetti denominati buchi neri. Si tratta di corpi celesti dotati di una particolarità unica, che suscitano ancora oggi grande interesse da parte della comunità scientifica.

I buchi neri sono oggetti caratterizzati da enorme compattezza e densità, tali che nulla possa sfuggire dalla loro superficie, nemmeno i raggi luminosi. Per comprendere questo basta pensare a cosa accade quando si lancia un oggetto verso l'alto. Questo continuerà a salire fino a raggiungere un picco e successivamente ricadrà verso il basso. Ovviamente con tanta più forza viene lanciato, maggiore sarà la sua velocità e tanto più alto il picco della sua traiettoria. Cosa accade? L'attrazione gravitazionale della Terra fa si che l'oggetto ricada dopo un certo intervallo di tempo, tanto maggiore quanto più alto è il picco. Per poter sfuggire al campo gravitazionale della Terra, un oggetto deve possedere una velocità di almeno 11.2 km/s. Questa velocità, detta velocità di fuga, è tanto più grande quanto maggiori sono la massa e la densità del corpo celeste su cui ci si trova. Per esempio, se fossimo su Giove, il pianeta più massiccio del Sistema Solare, si dovrebbe lanciare un oggetto alla velocità di circa 59.5 km/s per farlo allontanare dal pianeta.

Pensiamo ora di trovarci sulla superficie di un corpo tanto massiccio e così compatto da possedere una velocità di fuga dell'ordine di 300 mila km/s, cioè uguale alla velocità di propagazione della luce. Siamo in questo caso sulla superficie di un buco nero. I buchi neri sono perciò oggetti dai quali nulla può sfuggire, nemmeno i raggi luminosi: questa caratteristica fa si che il loro raggio venga denominato “orizzonte degli eventi”.

Come nascono? Alcuni di essi si formano quando una stella molto più massiccia del Sole cessa il combustibile nucleare (idrogeno ed elio) che alimenta le reazioni che avvengono al suo interno. Nel numero scorso di Futura abbiamo visto come l’energia prodotta da queste reazioni nucleari contrasta la gravità e impedisce alla stella di collassare su se stessa, e che quando queste cessano la stella implode dando vita, dapprima, ad un oggetto molto affascinante denominato supernova, e successivamente ad un un buco nero. La massa tipica di questi oggetti è quindi diverse volte più grande di quella del Sole, ma quello che li caratterizza è la loro densità: un buco nero con la massa uguale a quella solare dovrebbe possedere un raggio di circa 3 km e, dunque, una densità elevatissima.

Il valore estremamente alto della velocità di fuga sulla superficie di un buco nero fa si che questi inghiottano una grande quantità di materia, che va ad aumentare continuamente la loro massa. I buchi neri non emettono luce, come le stelle e le galassie: non si possono osservare direttamente, ma proprio dalla dinamica della materia nelle circostanze del corpo gli astronomi possono percepire la loro presenza. In alcuni casi una certa quantità di materia accresciuta, poco prima di giungere in prossimità dell'orizzonte degli eventi, viene anche espulsa, rappresentando un'altra forma di emissione utile alla identificazione dell'oggetto. I buchi neri non sono quindi completamente oscuri.

Recentemente lo studio della dinamica della materia in prossimità del centro delle galassie ha permesso di ipotizzare la presenza di buchi neri super-massicci. Si tratta in questo caso di sistemi milioni di volte più grandi del Sole, la cui formazione non è dovuta al collasso di una stella ma è legata alla contrazione gravitazionale di una grande quantità di gas in una regione estremamente densa e circoscritta: il centro di una galassia. Della loro fenomenologia e formazione ci occuperemo prossimamente.

CARLO GIOCOLI

Immagine: rappresentazione artistica di un buco nero che inghiotte materia da una stella vicina e ne espelle una parte sotto forma di getti (Felix Mirabel, ESA e NASA).

giovedì 5 marzo 2009

Come muore una stella


Una stella può morire in diversi modi. Abbiamo visto (su Futura, qualche settimana fa) che una stella nasce (si accende), quando sotto la spinta della gravità, il gas si contrae al punto da raggiungere la temperatura e la pressione necessarie all'avvio delle reazioni di fusione nucleare che trasformano l'idrogeno in l'elio, producendo energia. Tutta la vita di una stella è basata proprio sull'equilibrio di queste due forze che agiscono in direzione opposta: la gravità che spinge la stella a contrarsi e l'emissione dell'energia generata dalle reazioni nucleari al suo interno, che contrasta la contrazione.

La massa della stella è la variabile che ne definisce il fato. Ogni stella inizia la sua vita bruciando idrogeno e trasformandolo in elio. Quando la sua riserva di idrogeno termina, la gravità non è più bilanciata dalla produzione di energia e la stella inizia a contrarsi. Se la sua massa è sufficientemente elevata, le sue regioni interne possono raggiungere le condizioni per l'innesco del bruciamento dell'elio, che fornisce alla stella una nuova sorgente di energia. Le stelle più piccole non riescono mai a bruciare l'elio, e quindi trovano una nuova situazione di equilibrio in cui la semplice pressione del gas blocca la contrazione, diventando così oggetti che vanno spegnendosi lentamente (nane brune).

Invece, le stelle che sono riuscite a bruciare l'elio, vanno incontro ad un altro ciclo simile (cioè contrazione più eventuale innesco di un nuovo bruciamento nucleare), quando anche la loro riserva di elio si esaurisce. Le stelle più massicce possono attraversare quindi, una sequenza di cicli successivi, bruciando via via elementi sempre più pesanti: tuttavia a mano a mano che questi cicli procedono sempre più massa iniziale è richiesta per innescare le reazioni più complesse. Per le stelle di massa intermedia, nel caso in cui l'innesco di reazioni superiori sia impossibile e la pressione del gas non sia sufficiente a controbilanciare la gravità, la contrazione estrema della materia dà origine ad un oggetto stabile composto da soli neutroni (stella di neutroni).

La serie di cicli di innesco termina con la produzione di ferro, che non può essere utilizzato come combustibile: a questo punto l'effetto della gravità diventa catastrofico e la stella collassa su se stessa così rapidamente da causare l'esplosione dei suoi strati esterni. E' questa l'origine delle supernovae: esplosioni stellari che liberano una quantità spaventosa di energia e possono essere tanto luminose da essere visibili in pieno giorno. Gli strati interni della stella tuttavia continuano a contrarsi: se nemmeno il passaggio attraverso lo stato di stella di neutroni è sufficiente a bilanciare la forza di gravità l'oggetto collassa in un "buco nero".

Le esplosioni di supernova sono un meccanismo fondamentale sia per l'evoluzione della galassia che le ospita che per la creazione delle condizioni necessarie allo sviluppo della vita: è proprio in occasione di questi eventi che tutti gli elementi sintetizzati dalla stella vengono dispersi nello spazio circostante e possono andare ad arricchire una nuova generazione di stelle e pianeti.

FABIO FONTANOT

Questa illustrazione mostra una sequenza del violento processo di esplosione di una supernova. Nel 1054 astronomi cinesi notarono una 'nuova' stella che, per due anni, divenne molto più brillante del solito. Si trattava di una supernova, i cui resti sono stati osservati in gran dettaglio dal telescopio spaziale Hubble (Nebulosa del Granchio, in basso a destra). Immagine ESA/Hubble.