giovedì 23 ottobre 2008

Il silenzio dell'universo

Quando scienza e società dimenticano di parlare tra loro

Nel 1977 la NASA lanciava una coppia di sonde, Voyager I e II, alla volta di Giove e Saturno, i due pianeti maggiori alla corte del Sole. Nei dieci anni che seguirono, le sonde inviarono immagini senza precedenti dei due pianeti e dei loro satelliti, per poi proseguire, passando per Urano e Nettuno, verso i confini del sistema solare. Ancora oggi una delle due sonde è in contatto con la terra, ed entrambe proseguono nel loro viaggio attraverso l'ignoto. Ma non è questo il solo motivo che le carica di fascino: a bordo di entrambe le navicelle c'è un disco per grammofono che trasporta una raccolta di suoni caratteristici della nostra civiltà. Saluti in decine di lingue, insieme al rumore delle onde, del vento e dei tuoni. Versi di animali insieme ai discorsi del presidente degli Stati Uniti. E ancora Bach, Beethoven, Stravinsky, Chuck Berry, ritmi africani e canti tradizionali degli indiani d'America. Una versione moderna del classico messaggio nella bottiglia, un segnale della nostra presenza, lanciato verso possibili lontane civiltà extraterrestri. Sono un'astronoma. La mia formazione scientifica mi permette di considerare l'eventualità di un simile ritrovamento estremamente remota, se non praticamente impossibile. Tuttavia, ho sempre trovato quest'idea del disco molto poetica. Sarò forse ingenua, ma l'immagine di Glenn Gould che suona fluttuando insieme ai percussionisti senegalesi nell'immensità dell'universo riesce ancora ad emozionarmi.

Mentre se ne parlava tempo fa tra amici, qualcuno chiese che tipo di dispositivo ci fosse a bordo per riprodurre il disco. Io risposi che non lo sapevo, che probabilmente non c'è nessun dispositivo, del resto nello spazio il suono non si propaga. Lo dissi così, spontaneamente, come un'informazione del tutto ovvia, quasi superflua. Perché dal mio punto di vista è ovvio che nello spazio non si possa udire alcun suono: le onde sonore hanno bisogno di un mezzo per propagarsi, non si propagano nel vuoto. Lo spazio interstellare non è esattamente vuoto, ma rispetto agli standard terrestri è estremamente poco denso. In queste condizioni i suoni non possono propagarsi, è un dato di fatto, e dal mio punto di vista nemmeno tra i più sorprendenti. Evidentemente, questa informazione non era altrettanto scontata per i miei interlocutori. In particolare ricordo la reazione di una mia amica, filosofa, che rimase folgorata da questa notizia a lei del tutto nuova: aveva scoperto il silenzio dell'universo.

Da allora, quando ripenso a quell'episodio non vedo più la sonda Voyager, non vedo più l'immagine romantica di un pezzo di umanità che viaggia nel cosmo. Vedo solo le due reazioni opposte davanti al silenzio dell'universo: assenza di entusiasmo da un lato, eccesso di stupore dall'altro. Nel silenzio dell'universo vedo il silenzio della scienza. La distanza tra gli scienziati e il resto della società sembra essere diventata in alcuni casi abissale, e l'incomunicabilità tra queste due categorie umane rischia di sfociare in un fatale disinteresse reciproco. Difficile, ostica, non per tutti: così la scienza viene spesso percepita nell'immaginario comune. Quando se ne parla nei mezzi di comunicazione di massa, è sempre in termini spettacolari ma in fondo semplicistici, e il messaggio ricevuto dai lettori/ascoltatori è povero e confuso. Con questi presupposti, innescare un circolo vizioso sembra quasi inevitabile: ricevendo poco feedback da parte dei non esperti, gli scienziati si chiudono nella loro torre d'avorio e diventano così ancora più incomprensibili…

Personalmente, credo (e spero) che il divario non sia già diventato irrimediabilmente incolmabile. Da scienziata, non riesco ad immaginare il mio lavoro svincolato dal resto della società. È con questo intento che mi unisco a Futura: per cercare di sanare questo divario, per uscire dalla torre d'avorio e parlare di scienza a chi non se ne occupa. Per scuotere dal silenzio l'universo e scoprire ciò che ha da raccontare.

CLAUDIA MIGNONE

Immagine: Michaela Pavlatova