giovedì 13 ottobre 2011

Alla scoperta del lato oscuro dell’universo


Martedì scorso la storia della cosmologia ha registrato un duplice successo. Il conferimento del premio Nobel per la fisica 2011 “per la scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo attraverso l’osservazione di supernovae lontane” ha premiato il lavoro originale e di avanguardia di due gruppi di ricerca per i loro risultati ottenuti alla fine degli anni novanta. Poche ore dopo, l’Esa (European Space Agency) comunicava di aver deliberato che una delle future missioni spaziali che finanzierà sarà Euclid, un telescopio spaziale con lo scopo di svelare la causa alla base di tale espansione.

Si tratta di due esperimenti sostanzialmente molto diversi. Mentre le missioni insignite del premio Nobel hanno misurato l’evolvere delle distanze nell’Universo osservando la luce emessa in galassie lontane da potenti esplosioni stellari (le supernovae appunto, vedi articolo di C.M.), le osservazioni realizzate da Euclid porteranno alla creazione di una mappa dettagliatissima della distribuzione di milioni di galassie che popolano l’Universo. Da questa mappa sarà possibile ricostruire la storia dell’espansione dell’Universo negli ultimi 10 miliardi di anni, ovvero oltre il 70% dell’età attuale dell’Universo.

L’aspetto che accomuna le due misure è però il loro scopo ultimo: svelare le proprietà del lato oscuro dell’Universo. Infatti, su scale cosmologiche, ovvero estremamente più grandi della nostra galassia, la materia ordinaria contribuisce solo per il 4% al budget totale dell’Universo mentre a costituirne la quasi totalità sono proprio due componenti “esotiche”: la materia e l’energia oscura. Tale materia/energia non è mai stata osservata direttamente perché non emette luce (da qui il termine oscura). Eppure sono evidenti gli effetti indiretti della sua presenza in molte osservazioni astronomiche. È proprio appellandosi all’esistenza di materia ed energia oscura che gli astrofisici cercano di dare una spiegazione coerente al fenomeno dell’espansione accelerata dell’Universo. Comprendere meglio la natura di queste misteriose componenti è uno degli obiettivi chiave della ricerca astronomica dei prossimi anni. E per questo motivo, il finanziamento della missione Euclid rappresenta in sé una vittoria per la comunità astronomica in quanto fornisce le condizioni per lo svolgimento di una ricerca d’alto livello e, ci si augura, per il ripetersi di scoperte epocali.

Bisognerà comunque attendere ancora un po’ prima dei prossimi festeggiamenti perché Euclid è una missione il cui inizio è programmato per il 2019. Dopo il lancio, lo strumento impiegherà circa un mese per raggiungere il luogo d’appostamento, distante circa 1.5 milioni di km dalla Terra. Da lì, per circa 6 anni scruterà il cosmo mappando la posizione delle galassie e comunicherà i relativi dati (dell’ordine di 850 Gbit al giorno!) alle stazioni di controllo e analisi dati dell’Esa. In questi centri e nelle università si confronteranno i modelli teorici e le osservazioni ottenute per ricavare un quadro scientifico della storia dell’evoluzione dell’Universo.

È doveroso chiarire che il premio Nobel per la fisica 2011 dà credito al fatto che l’Universo sia in continua espansione accelerata, cioè che la distanza tra oggetti nell’Universo (come in questo caso le galassie), aumenti continuamente e che lo faccia a velocità crescente, ma non fa alcuna menzione all’energia oscura come causa scatenante di tale espansione. Molto lavoro è, infatti, ancora necessario per poter accertare scientificamente che l’energia (così come la materia) oscura esistano veramente e non siano soltanto un artefatto causato dai modelli teorici usati per la descrizione del cosmo. Le misure di alta precisione che si otterranno con Euclid permetteranno di compiere diversi passi avanti in tale direzione. Parallelamente, una delle frontiere più attuali della fisica è proprio quella di riuscire ad osservare la materia oscura direttamente in laboratorio tramite potenti acceleratori di particelle. Nel frattempo, non mancano altrettanto validi scienziati in tutto il mondo che invece dedicano i loro studi a teorie alternative che possano spiegare il fenomeno dell’espansione accelerata dell’Universo senza ricorrere al concetto di materia ed energia oscura. Quale che sia l’esito di questi studi, si profilano all’orizzonte entusiasmanti scoperte che arricchiranno la nostra consapevolezza delle regole fisiche che governano l’Universo che ci ospita.

MARCELLO CACCIATO

I Nobel che guardano ai segreti delle stelle


C’è un reame affascinante in cui il mondo microscopico, popolato da atomi e particelle ancora più piccole, invisibili costituenti del mondo materiale che percepiamo con i nostri sensi, incontra quello macroscopico, i cui protagonisti sono enormi galassie formate da miliardi di stelle, giganteschi ammassi di migliaia di galassie e ancor più vasti vuoti cosmici.

Questo reame è l’astrofisica, un campo di ricerca che cerca di svelare i misteri dell’Universo indagando sulle scale più grandi e, allo stesso tempo, su quelle più piccole. In questo reame può capitare, per esempio, che lo studio delle reazioni nucleari che avvengono all’interno delle stelle possa fornire preziosi indizi per comprendere qualcosa di immensamente più grande come la dinamica dell’intero Universo e che questo, a sua volta, possa fare luce sulla natura delle particelle elementari che permeano il cosmo. Questo è esattamente ciò che è successo a Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam Riess, i tre astrofisici a cui è stato conferito, lo scorso martedì, il Premio Nobel per la Fisica 2011 per la “scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo attraverso l’osservazione di supernovae lontane”.

I tre accademici hanno iniziato le loro carriere, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, andando letteralmente “a caccia” di supernovae, le violentissime esplosioni con cui le stelle terminano la propria esistenza. L’esplosione di una supernova produce così tanta luce ed energia che la stella morente diventa, per qualche settimana, tanto brillante quanto l’intera galassia che la ospita. Alcune supernovae “vicine”, esplosioni di stelle appartenenti alla nostra galassia, la Via Lattea, o a galassie limitrofe, possono essere osservate addirittura ad occhio nudo: esempi celebri sono quella scoperta nel 1054 da alcuni astronomi cinesi e quelle individuate nel 1572 dall’astronomo danese Tycho Brahe e nel 1604 dall’astronomo tedesco Johannes Kepler.

Per osservare supernovae in galassie lontane, invece, occorre adoperare il telescopio e monitorare moltissime galassie per lunghi periodi di tempo, in quanto l’esplosione di una supernova è un evento alquanto raro. Usando i più potenti telescopi disponibili due decenni fa, Perlmutter, Schmidt e Riess hanno scrutato il cielo con pazienza e scovato un gran numero di supernovae in galassie così distanti dalla nostra che la loro luce ha percorso centinaia di milioni di anni-luce prima di arrivare fino a noi.

I loro dati, insieme a studi teorici sulle reazioni nucleari che hanno luogo nelle esplosioni stellari, hanno mostrato che una classe particolare di supernovae, dette “di tipo Ia” in gergo, producono tutte press’a poco la stessa quantità di energia e, quindi, di luce. Questa caratteristica permette di usarle come indicatori di distanza, un’operazione tutt’altro che banale in astronomia. Per una stella o galassia qualsiasi, infatti, non si ha modo di stabilire se essa è brillante perché molto potente o solo perché molto vicina, e gli astronomi devono cercare altri indizi. Le “supernovae di tipo Ia” invece si comportano come delle “candele standard” e la relazione è piuttosto semplice: brillante-vicina, fioca-lontana.

I tre ricercatori insiginiti del prestigioso riconoscimento hanno così usato le loro osservazioni di supernovae in galassie lontane per produrre una sorta di “cartografia” dell’Universo. Inoltre, hanno combinato queste misure con altri dati, ricavando la velocità con cui ognuna di queste galassie si sta allontanando da noi (e da tutte le altre galassie allo stesso tempo) nell’ambito dell’espansione cosmica che ha avuto inizio con il Big Bang circa 13.7 miliardi di anni fa. Lo scopo di questo studio era studiare la dinamica globale dell’Universo. Ciò che si aspettavano i tre astrofisici era di trovare che l’espansione cosmica, rallentata dall’effetto della gravità che attrae i corpi gli uni verso gli altri, procedesse con velocità decrescente. Sorprendentemente, invece, le loro osservazioni hanno rivelato che l’espansione è accelerata e procede, empre più velocemente, sotto la “spinta” di una componente ancora misteriosa che si comporta in modo opposto rispetto alla forza di gravità, la cosiddetta energia oscura.

Questi risultati sono stati pubblicati tra il 1998 e il 1999 da due gruppi di ricerca internazionali, guidati rispettivamente da Perlmutter e da Schmidt e Riess. Durante lo scorso decennio, osservazioni sempre più accurate di un grandissimo numero di supernovae hanno, insieme a molti altri studi complementari, corroborato questa scoperta. L’espansione accelerata dell’Universo è ormai, per gli astrofisici, un fatto assodato. Cosa produca quest’accelerazione, tuttavia, rimane ancora ignoto.

Molti studi teorici ed esperimenti indagano sulla natura fondamentale dell’energia oscura nel mondo microscopico, ovvero nell’ambito della fisica delle particelle. Allo stesso tempo osservazioni ed analisi astronomiche cercano di determinarne, in modo sempre più preciso, l’influenza macroscopica sulla dinamica dell’Universo (vedi articolo di M.C.). Se una risposta a questi quesiti arriverà, sarà sicuramente grazie agli sforzi combinati di migliaia di studiosi impegnati in entrambi i campi nell’instancabile reame dell’astrofisica.

CLAUDIA MIGNONE