giovedì 26 novembre 2009

Inseguendo una cometa per decifrare le nostre origini


Abbiamo dovuto aspettare il 1800 ed il fortuito ritrovamento di circa 800 kg di granito per riuscire a tradurre i geroglifici egizi. La "stele di Rosetta" è una lastra che riporta lo stesso testo in greco ed egizio, il che consentì, grazie alla conoscenza del greco, di decifrare i geroglifici e darci oggi la conoscenza di una lingua che sarebbe altrimenti rimasta per sempre immersa nel mistero.

Allo stesso modo la missione Rosetta è oggi lungo la sua strada per arrivare a decifrare "iscrizioni" testimonianti le origini del nostro Sistema Solare. Questa volta, tuttavia, piuttosto che aspettarne l'affiorare casuale da qualche polveroso sito archeologico, le tracce che cerchiamo si nascondono su qualcuno dei corpi più remoti del nostro Sistema Solare: moderni siti archeologici tutt'altro che polverosi. Comete ed asteroidi, infatti, possono considerarsi come i bozzoli rimanenti dalla formazione del nostro Sistema Solare e dunque rappresentano i posti migliori ove andare alla ricerca delle nostre iscrizioni.

Durante l'epoca della formazione del Sistema Solare (più di 4 miliardi di anni fa) un enorme disco di polveri roteante attorno ad un embrione del nostro Sole ha iniziato ad addensarsi dando vita a corpi di dimensioni via via più considerevoli. I più grandi, detti planetoidi, hanno iniziato anche ad avere una "vita" gravitazionale e geologica propria, mentre i corpi più piccoli non hanno raggiunto dimensioni sufficienti per attirare altre polveri. Formatisi nelle regioni più esterne del Sistema Solare, così fredde che molti dei materiali del disco di polveri, compresa l'acqua, si trovavano allo stato solido, hanno conservato parte della loro struttura chimica senza subire significative modifiche successive.

Alcuni dei corpi in questione sono oggi comete: ammassi di roccia e soprattutto ghiaccio che si muovono attorno al Sole lungo orbite molto ellittiche. Ciò consente loro di sperimentare condizioni ed ambienti completamente diversi, da regioni estremamente oscure e fredde, molto oltre i pianeti più esterni, fino a zone in cui l'influsso solare è così forte, sia in termini di gravità che di calore, da cambiarne radicalmente la loro struttura fisico-chimica, regalandoci d'altro canto le superbe chiome. Per scovare e utilizzare la nostra nuova stele dobbiamo riuscire a raggiungere ed esplorare una cometa prima del suo primo avvicinamento al Sole, “colpevole” di cancellare completamente gli indizi di cui siamo alla ricerca.

La sonda Rosetta, il cui nome è direttamente mutuato dalla celebre stele di cui sopra, è stata lanciata dall'Agenzia Spaziale Europea (ESA) nel 2004 ed ha come obiettivo primario la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Dopo quasi 5 anni Rosetta è circa a metà strada del suo viaggio, che terminerà nel 2014 al di là dell'orbita di Giove, 10 anni dopo il lancio ed in condizioni tali per cui sarà possibile iniziare a girare attorno alla cometa invece che passarci soltanto accanto.

Al fine di leggere la nostra stele e di sfruttare al meglio il lungo cammino fatto, la sonda porta con sé anche Philae, un piccolo robottino (quello che si usa chiamare un "lander") che verrà rilasciato da Rosetta molto lentamente fino ad atterrare sulla cometa. La gravità di 67P è, comunque, così bassa (stiamo parlando di un "masso" di circa 4 km di diametro) che alcune trivelle e cavi saranno necessari affinché il lander non rimbalzi sulla cometa e si perda negli spazi interplanetari.

Raggiungere una cometa è un viaggio molto più particolare di quello "standard" che si adotta per raggiungere un pianeta. La gravità di ognuno dei corpi massicci del Sistema Solare può essere sfruttata per modificare un'orbita iniziale raggiungibile con una spesa moderata dalla Terra in un'orbita più energetica con una spesa di combustibile molto bassa o, al limite, anche nulla. Il trucco consiste nel "rubare" un po' dell'energia gravitazionale del pianeta passandogli molto vicino. Il pianeta, infinitamente più massiccio della nostra Rosetta, non si accorgerà di nulla, la sonda, invece, riceverà una spinta significativa che la accelererà verso la sua destinazione.

La strada di Rosetta prevede tre incontri gravitazionali con la Terra ed uno con Marte prima di riuscire a raggiungere la cometa 67P e mettersi in orbita attorno ad essa in maniera da poterla seguire per un certo periodo lungo il suo cammino verso il Sole. L’ultimo passaggio della sonda vicino alla Terra è avvenuto lo scorso 13 Novembre 2009: abbiamo assistito, pertanto, all'ultima possibilità per noi di vedere da vicino Rosetta e per lei di osservare da vicino un pianeta abitato. Durante il suo cammino Rosetta ha già visitato, nel Settembre 2008, anche l'asteroide 2867 Steins; la prossima tappa, nel suo piccolo tour di corpi minori del Sistema Solare, sarà, tra circa un anno, il passaggio ravvicinato con l'asteroide Leutelia, altro piccolo passo importante per la nostra ricerca di indizi sulle origini del Sistema Solare.

Successivamente la sonda sarà "spenta", ovvero messa in quello che si chiama uno stato di ibernazione in cui solo un flebile beep dal suo computer principale continuerà a raggiungere la Terra. Il letargo, pianificato per risparmiare energia durante la parte più fredda del suo viaggio, durerà per ben quattro anni prima di rendere nuovamente operativa tutta la strumentazione di bordo in prossimità della cometa. Solo allora i suoi strumenti saranno nuovamente accesi per il nostro ultimo assalto ai geroglifici che ancora celano le nostre origini.

PIERPAOLO PERGOLA

Nelle immagini, dall'alto verso il basso: la stele di Rosetta, risalente al II secolo a.C. ed esposta al British Museum di Londra; una rappresentazione dell'incontro tra la sonda spaziale Rosetta e la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, che avverrà nel 2014; la complessa traiettoria della sonda Rosetta attraverso le orbite di vari corpi del Sistema Solare.

giovedì 19 novembre 2009

Gli oscuri ammassi di galassie


Le galassie nell’universo tendono a stare in compagnia: gli astronomi se ne accorsero già negli anni Trenta, analizzando le lastre fotografiche realizzate presso quelli che all’epoca erano i più potenti osservatori del mondo. Riconoscere gli “agglomerati” di galassie in un’immagine a due dimensioni non è banale: spesso, infatti, due o più galassie appaiono vicine soltanto per un effetto di proiezione, che le fa cadere nello stesso punto della volta celeste benché siano in realtà lontanissime fra loro. In altri casi, invece, si tratta di galassie fisicamente vicine, che sentono l’una l’attrazione gravitazionale dell’altra: a seconda del numero di oggetti coinvolti, gli astronomi parlano di gruppi (qualche decina) o di ammassi (fino a qualche migliaio) di galassie.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi strutture, nell’universo, ad essere tenute insieme dalla forza di gravità. Si estendono fino a decine di milioni di anni-luce e hanno una massa che può arrivare a qualche milione di miliardo di volte quella del Sole. Eppure di questa massa le galassie rappresentano meno del dieci percento! Gli astronomi continuano a chiamarli ammassi di galassie per motivi storici, ma, come si è scoperto in seguito, le componenti principali di questi giganti cosmici sono il gas, caldissima mistura di elettroni e protoni ad una temperatura di almeno dieci milioni di gradi, che emette raggi X, e la materia oscura, che non emette luce e non può quindi essere osservata, ma la cui presenza si può intuire indirettamente.

Isolare i contributi dovuti a galassie e gas è relativamente semplice: le prime si possono osservare con i tradizionali telescopi ottici, il secondo grazie ai satelliti che operano nella banda dei raggi X. La materia oscura, invece, rappresenta invece un argomento delicato e, in alcuni ambienti, ancora controverso.

La massa totale di un ammasso si può studiare mediante l’effetto di lente gravitazionale, o lensing gravitazionale, che esso esercita sulle galassie lontane, situate “dietro” l’ammasso: la loro forma viene distorta in un modo caratteristico, descritto dalla teoria della relatività generale di Einstein, che dipende dalla quantità totale di materia contenuta nell’ammasso. Molti astrofisici, ma non tutti, ritengono che gli ammassi siano dominati da questa elusiva materia oscura, e ad essa attribuiscono la massa totale ricostruita tramite il lensing gravitazionale.


Nel 2006, un oggetto molto particolare ha fatto luce su questi oscuri argomenti: il “Bullet Cluster” (dall’inglese, Ammasso Proiettile). Si tratta in realtà di due ammassi che si sono “recentemente” scontrati: la “nube” di gas nell’ammasso di destra (il proiettile) ha infatti la tipica forma di un’onda d’urto, forgiata dalla collisione con l’altro. Il gas ha subito un rallentamento durante lo scontro, una sorta di “attrito” che lo ha separato sia dalle galassie che dalle regioni dove invece si trova la maggior parte della materia dei due ammassi così com'è stata “individuata” dagli studi di lensing gravitazionale. Questa separazione mostra che la maggior parte della materia ha interagito con il gas solo mediante la gravità. L’aspetto di questi “rottami” cosmici è dunque interpretato come evidenza dell’esistenza della materia oscura.

CLAUDIA MIGNONE

In questa immagine del “Bullet Cluster” le osservazioni delle galassie (in bianco/giallo) e del gas (in rosa) sono affiancate alla ricostruzione della massa realizzata attraverso il lensing gravitazionale (in blu). Immagine di NASA/CXC/CfA/M.Markevitch et al. (osservazioni X); NASA/STScI, Magellan/U.Arizona/D.Clowe et al. (osservazioni ottiche); NASA/STScI, ESO WFI, Magellan/U.Arizona/D.Clowe et al. (ricostruzione mediante il lensing).

giovedì 12 novembre 2009

Tutti gli occhi puntati sulla Via Lattea


Chiunque abbia ammirato il cielo notturno troverà forse sorprendente credere che i nostri occhi sono in realtà ciechi rispetto alla maggior parte della “luce” che proviene dall’universo. Quella che percepiamo è, infatti, soltanto una piccolissima frazione dell’energia che stelle, galassie ed altre sorgenti astronomiche producono.

La cosiddetta luce “visibile” non è che una minima parte di quello che gli scienziati chiamano lo “spettro elettromagnetico”: onde radio, microonde, luce infrarossa corrispondono a energie più basse rispetto alla luce visibile, luce ultravioletta, raggi X e raggi gamma invece hanno energie più alte, ma si tratta sempre di luce.

L’atmosfera della Terra, inoltre, contribuisce al nostro “isolamento” assorbendo parte di questa radiazione e lasciando passare solo la luce visibile e le onde radio. Se non ci fosse l’atmosfera, e se i nostri occhi si fossero evoluti in qualche altro degli infiniti modi possibili, probabilmente il cielo notturno ci apparirebbe in modo completamente diverso.

Grazie ai progressi tecnologici degli ultimi decenni, gli astronomi hanno però imparato a guardare il cielo anche nelle altre energie, realizzando così innumerevoli scoperte. Mediante i telescopi spaziali che scrutano l’universo da una posizione privilegiata, fuori dall’atmosfera, in orbita intorno alla Terra, si sono potuti aprire “nuovi occhi” sul cosmo, osservandolo attraverso la luce infrarossa e ultravioletta, attraverso i raggi X, i raggi gamma e le microonde.

In particolare, le immagini di uno stesso oggetto realizzate in diverse “bande” energetiche svelano la vasta gamma di fenomeni fisici che avvengono al suo interno. Questa immagine, rilasciata lo scorso martedì dalla NASA, ne rappresenta un brillante esempio.


Ad essere ritratto è il centro della nostra Galassia, la Via Lattea, all’interno del quale è nascosto un buco nero supermassiccio, con una massa pari a quattro milioni di volte quella del Sole, la cui presenza non si può osservare direttamente ma solo intuire in modo indiretto. I vari colori dell’immagine corrispondono ad osservazioni realizzate in diverse bande energetiche, e riflettono diversi fenomeni fisici.

Quello che vede il Telescopio Spaziale Hubble, nella luce visibile e nel cosiddetto “vicino infrarosso”, è mostrato in giallo: si tratta di centinaia di migliaia di stelle, alcune delle quali stanno nascendo mentre altre brillano, bruciando il loro combustibile nucleare. In rosso, invece, sono rappresentate le osservazioni infrarosse effettuate dal Telescopio Spaziale Spitzer. La luce infrarossa corrisponde ad energie più basse rispetto a quella visibile: Spitzer è quindi sensibile a oggetti più freddi rispetto a Hubble, e può “vedere” la struttura filamentosa delle nubi di polvere cosmica, forgiate da venti prodotti dalle stelle vicine, e da cui nasceranno in futuro nuove stelle. In blu e viola, infine, sono riprodotti i dati osservati ai raggi X dal Telescopio Spaziale Chandra: i raggi X vengono emessi dal gas ad altissime temperature, oltre un milione di gradi, che si trova nei pressi del centro galattico, così caldo grazie all’energia rilasciata dalle vicine esplosioni stellari e dai getti energetici provenienti dal buco nero nascosto nel cuore della Via Lattea.

Combinando le immagini ottenute con i diversi telescopi, gli astronomi hanno potuto scoprire dettagli finora ignoti circa i fenomeni violenti ed impetuosi che hanno luogo nel centro della nostra Galassia, distante circa 26,000 anni-luce da noi.

CLAUDIA MIGNONE

Questa immagine, grande circa quanto la luna piena in cielo, mostra stelle nascenti, esplosioni, nubi di gas e polvere nel centro della Via Lattea. I diversi colori corrispondono ad osservazioni in diverse bande dello spettro elettromagnetico: il giallo rappresenta osservazioni nel visibile e vicino infrarosso (Hubble), il rosso indica osservazioni infrarosse (Spitzer), il blu-violetto mostra le osservazioni ai raggi X (Chandra). Immagine distribuita da NASA, ESA, CXC, SSC, STSci.

giovedì 5 novembre 2009

Gli energetici raggi gamma


Tutti gli appassionati di astronomia sono ormai abituati a vedere immagini di uno stesso oggetto in diverse bande energetiche provenienti da osservazioni radio, ottiche, infrarosse, ultraviolette, nei raggi X. Non è così comune, invece, sentir parlare della parte più energetica dello spettro elettromagnetico: i raggi gamma.

Si tratta di luce che ha un’energia circa 10 miliardi di volte maggiore rispetto alla luce a cui l'occhio umano è sensibile. Sfortunatamente non è possibile osservare direttamente questa radiazione poiché l'atmosfera terrestre non è trasparente a queste energie. Il problema può essere aggirato in parte mediante l’uso di telescopi spaziali, ma per quanto riguarda una parte importante dei raggi gamma, quelli ad altissime energie, ciò non è possibile per motivi prettamente logistici: questi fotoni sono talmente rari che le dimensioni necessarie del telescopio sono proibitive per un esperimento da mandare in orbita.

Un altro metodo per osservare questi fotoni sfrutta l'atmosfera stessa della Terra come un grande rilevatore di particelle. I raggi gamma che attraversando l’atmosfera interagiscono con gli atomi ivi presenti e perdono energia, producendo una cascata di particelle. Le particelle nella cascata hanno una velocità maggiore della velocità della luce nell'atmosfera (ma sempre minore della velocità della luce nel vuoto!) e producono la cosiddetta radiazione Cherenkov: si tratta di un cono di luce che, quando giunge al suolo, può illuminare una superficie di circa 100 metri di raggio!

Questa luce viene poi raccolta dai telescopi ed analizzata. Tra gli esperimenti di ultima generazione in questo campo ricordiamo H.E.S.S (High Energy Stereoscopic System), che si trova in Namibia, MAGIC (Major Atmospheric Gamma-ray Imaging Cherenkov Telescope), situato a La Palma, nelle isole Canarie, e VERITAS (Very Energetic Radiation Imaging Telescope Array System), in Arizona, Stati Uniti. Questi esperimenti sfruttano la tecnica stereoscopica, ovvero utilizzano molteplici telescopi distribuiti su una superficie molto estesa, in modo da coprire il cono di luce prodotto dalla cascata: questo permette di determinare con maggior certezza la direzione da cui provengono i fotoni e la loro energia.


Ogni singolo telescopio non è fondamentalmente diverso da un telescopio ottico classico. La differenza principale è nella dimensione dello specchio: i due telescopi dell'esperimento MAGIC, per esempio, hanno un diametro di circa 17 metri ciascuno, mentre quello del telescopio che sarà costruito durante la prossima fase dell'esperimento H.E.S.S. è addirittura di oltre 20 metri! Naturalmente non si tratta di specchi monolitici, ovvero costituiti da un unico blocco, ma formati da tanti piccoli tasselli.

Molti e diversi sono gli oggetti astronomici che possono essere studiati grazie a questa tecnica: un esempio sono i getti di particelle emessi dai nuclei delle cosiddette galassie attive, che nascondono al loro interno un buco nero supermassiccio che divora la materia circostante, oppure le nebulose di particelle energetiche espulse dalle stelle quando, alla fine della loro vita, esplodono sotto forma di supernovae.

GIOVANNA PEDALETTI

Nell'immagine, i quattro telescopi che attualmente compongono l'esperimento H.E.S.S. nell'altopiano di Khomas, in Namibia. L'esperimento, pienamente operativo dal 2004, sarà arricchito nei prossimi anni con nuovi telescopi per ottenere prestazioni ancora migliori. (Credits: H.E.S.S. Collaboration)