giovedì 11 dicembre 2008

Siamo tutti sotto lo stesso cielo

Così l'astronomia diventa uno strumento per aiutare l'infanzia a sognare

Un'idea semplice: tutte le persone di questo pianeta, indipendentemente dal loro stato sociale, civile, religione, etnia, possono contemplare la volta celeste ed ammirarla in tutto il suo splendore. A questo si aggiungano la miriade di storie e tradizioni legate alle stelle e si mescoli il tutto con la fantasia fervida dei bambini. Così facendo si ottiene unawe . Unawe (Universe Awereness) è il nome di un progetto internazionale che utilizza la bellezza e grandiosità dell'universo per ispirare bambini che vivono situazioni socialmente disagiate. Attraverso lo studio dell'astronomia si cerca di aprire le menti dei bambini, stimolare la loro curiosità nei confronti della scienza e farli familiarizzare con i concetti di tolleranza e visione globale del mondo.

Proprio su Futura di qualche settimana fa si faceva accenno alle difficoltà che la scienza incontra nel comunicare con chi di scienza non si occupa. Ci si preoccupava del crescente divario tra gli scienziati nella loro torre d'avorio e la gente che della scienza vede solo le applicazioni tecniche. Un'esperienza quale quella di unawe rappresenta sicuramente una sfida a conciliare questi due mondi nella speranza che tale unione si riveli fertile.

A tal fine, l'astronomia è uno strumento ideale. Infatti essendo una scienza può essere usata per sviluppare nei bambini la capacità di pensare razionalmente. Allo stesso tempo, però, ha il vantaggio di essere anche intimamente legata all'eredità culturale di ogni popolo. Gli aspetti socio-culturali dell'astronomia (si pensi alle date dei riti religiosi o a quelle delle attività agricole) permette di prendere coscienza delle identità culturali e delle diversità. L'astronomia inoltre è multi-disciplinare. Include infatti concetti di fisica, chimica, biologia e ingegneria. Il tutto avvolto in un'atmosfera magica derivante dal fatto che l'astronomia va a toccare quelle che sono le domande ataviche sull'origine del tutto.

E' un concetto che può suonare bizzarro a primo acchitto, ma vale una seria riflessione. Grazie al suo carattere esotico l'astronomia può essere usata come strumento di grande valenza per la vita di ogni giorno, come uno strumento di rivalsa sociale, come mezzo di autodeterminazione. Una delle attività di unawe è stata di recarsi in Sudamerica e di creare dei banchetti informativi per strada. L'idea era quella di catturare l'attenzione dei bambini che vivono per strada mostrando loro dei semplici giochi legati all'astronomia. Questi bambini, avendo avuto modo di apprendere divertendosi, hanno chiesto loro stessi al gruppo di animatori dell'unawe di tornare il giorno dopo. L'intera attività è durata diverse settimane. Alla fine, uno dei bambini ha chiesto innocentemente cosa bisogna fare per diventare un astronomo e la risposta è stata ovviamente: "studiare!".

Quello stesso bambino oggi va a scuola regolarmente. E ha un sogno nel cassetto e nel cercare di perseguirlo si terrà lontano dalle tentazioni di una vita di strada. Di bambini a cui regalare un sogno ce ne sono tanti e non serve andare lontano. Siamo tutti sotto lo stesso cielo, serve solo imparare a guardarlo.

Per maggiori informazioni sul progetto unawe, visita www.unawe.org.

MARCELLO CACCIATO

giovedì 4 dicembre 2008

Salvare la Terra dagli asteroidi

Cosa fa la scienza per scongiurare la minaccia di una collisione

Gli asteroidi possono rappresentare una seria minaccia per la Terra. Gli effetti che un'eventuale collisione produrrebbe dipendono fortemente dalla grandezza, dalla composizione e dalla velocità a del corpo impattante. Ogni giorno arrivano sulla Terra corpi dalle dimensioni tanto piccole da disintegrarsi a contatto con l'atmosfera. D'altro canto ne esistono anche tali da generare conseguenze comparabili almeno a quelle di una bomba atomica.

Cosa fa la scienza per prevedere/controllare/fermare questi eventi? Una priorità e senza dubbio conoscere quanti sono e su che orbite si muovono i Neo (Near Earth Objects), quelli oggetti che hanno lasciato la Fascia Principale degli Asteroidi per avvicinarsi alla Terra. A questo fine, è molto importante che le osservazioni astronomiche compiute in tutto il mondo, non solo ora ma anche in passato, vengano confrontate e messe in correlazione. Si cerca così di ricostruire la traiettoria di uno stesso oggetto, identificandone il maggior numero di stati (posizione e velocità) nel corso del tempo. Nel mondo esistono due centri di riferimento, il Minor Planet Center negli Stati Uniti e l'Università di Pisa. Entrambi si occupano di ricevere, controllare e divulgare le osservazioni e di predire la probabilità di impatto.

Per predire la traiettoria nel futuro, bisogna adottare un modello che descriva le forze che agiscono sul corpo. Essenzialmente si tratta dell'attrazione gravitazionale da parte del Sole, dei pianeti e dei maggiori satelliti naturali e asteroidi, più effetti relativistici, mareali e di radiazione solare. Il grande problema è costituito da quale posizione e velocità considerare come punto di partenza a cui applicare questo modello. Le osservazioni, infatti, ci offrono questi dati con grande precisione, ma esiste inevitabilmente un certo margine d'errore. Nessuna misura può essere certa al cento per cento.

Tale imprecisione può modificare drasticamente il risultato finale, specialmente nei casi in cui l'asteroide si avvicina considerabilmente alla Terra. Cosa si fa dunque? Anziché applicare il modello di forze a un solo punto iniziale, si considera un certo numero di punti giacenti in una determinata regione di riferimento, le cui dimensioni rispecchiano l'incertezza introdotta dalla misura.

Il famoso asteroide Apophis, dal diametro di circa 250 m, si avvicinerà alla Terra nel 2029 e nel 2037. La sua posizione pu`o essere al giorno d'oggi stimata con un'accuratezza inferiore ai 10 km. Utilizzando questo fatto e la tecnica sopra descritta, è possibile affermare che non avverrà nessuna collisione nel 2029, nel peggiore dei casi l'asteroide si scontrerà con uno dei satelliti geostazionari distanti 36000 km dalla superficie terrestre. Purtroppo non si può avere la stessa certezza per il secondo incontro ravvicinato, dal momento che al primo passaggio la Terra influenzerà tanto il movimento di Apophis da non poter ora predirne il comportamento.
Saranno necessarie molte misure accurate intorno al 2029.

E se la probabilità di impatto fosse davvero elevata? In questi anni, sono stati proposti diversi scenari. Si può dire che la disintegrazione non sia la miglior strada percorribile, perché i frammenti risultanti da questo processo finirebbero per complicare ulteriormente la situazione. Si pensa piuttosto a deviare l'orbita dell'asteroide.

C'è l'idea del trattore gravitazionale: avvicinare al corpo una sonda in modo tale da attirarlo gravitazionalmente e spostarlo abbastanza da evitare la collisione.

Un'altra ipotesi è quella di installare un motore a propulsione nucleare sull'asteroide, ma chissà se la tecnologia ne permetterà la realizzazione. C'è chi ha addirittura avanzato la proposta di sfruttare l'effetto che la radiazione solare ha sul moto dell'asteroide: semplicemente colorandolo, lo si potrebbe deviare. Infine, una delle possibilità più interessanti è quella di convertire parte della superficie del corpo in emissione gassosa attraverso una serie di specchi solari. Tale emissione agirebbe da motore propulsore allontanando dunque l'asteroide.

ELISA MARIA ALESSI

giovedì 27 novembre 2008

Asteroidi: non solo il martello di Dio

Perché questi piccoli oggetti rocciosi hanno sempre destato fascino

Gli asteroidi sono piccoli oggetti rocciosi di forma irregolare che orbitano intorno al Sole. Non sono abbastanza grandi da poter essere considerati pianeti e dunque appartengono alla categoria di corpi minori del Sistema Solare. Fin dal 1801, anno in cui Giuseppe Piazzi scoprì il primo asteroide, questi corpi hanno suscitato un’incessante curiosità e non solo per gli effetti devastanti che potrebbero causare se incontrassero la superficie terrestre.

All’inizio del XIX secolo, la legge di Titius–Bode godeva di una certa autorevolezza: assegnando ad ogni pianeta un numero, in ordine crescente dal più vicino al più lontano rispetto al Sole, si poteva calcolare la corrispondente distanza in base ad una semplice espressione matematica. Per qualche strana ragione, questa legge funzionava straordinariamente bene per tutti i pianeti fino ad allora conosciuti, cioè fino a Urano, a patto però di fare un piccolo salto tra Marte e Giove. Quando venne scoperto l’asteroide Cerere nel 1801, la sua distanza si adattava benissimo al pianeta mancante. Quest’ulteriore conferma alla legge di Titius–Bode e la successiva scoperta di altri asteroidi da un lato stimolò la ricerca di nuovi pianeti, dall’altro spinse a domandarsi per quale motivo tra Marte e Giove ci fossero tanti frammenti di roccia al posto di un solo pianeta.

In effetti, non molto tempo dopo venne scoperto Nettuno e quasi un secolo dopo Plutone. Piano piano ci si rese conto che esistevano ragioni più profonde e complesse di quella data da una banale corrispondenza numerica per giustificare il movimento più o meno stabile dei pianeti a una data distanza dal Sole. Riguardo la presenza di un gran numero di asteroidi in orbita tra Marte e Giove, i cosiddetti Asteroidi della Fascia Principale, all’inizio venne ipotizzata un’esplosione di un preesistente pianeta, ma poi questa teoria venne scartata, essenzialmente per la composizione chimica non omogenea tra un asteroide e l’altro e per la piccola quantità di materia che questi corpi rappresentano. Basti pensare che la massa di tutti gli asteroidi scoperti finora non raggiunge la massa della Luna.

Oggi si tende a credere che Giove abbia impedito che questi corpi minori si aggregassero per formare un vero e proprio pianeta. Si cerca dunque di fare luce su molte domande ancora senza risposta riguardo l’origine del Sistema Solare attraverso analisi dettagliate sulla forma e composizione di determinati asteroidi, tra i più antichi corpi del nostro Sistema Solare. Si pensi alla recente missione Dawn, che sta andando da Cerere e Vesta, a Rosetta, che nel suo
cammino verso la cometa 67/P Churyumov–Gerasimenko ha incontrato Steins, ma anche a NEAR e Galileo. Da un punto di vista dinamico e considerando solo gli Asteroidi della Fascia Principale, sono due i fenomeni più interessanti: le risonanze di moto medio e le collisioni. Le risonanze determinano la stabilità del movimento degli asteroidi. In base al rapporto di risonanza esistente, può succedere che un asteroide e Giove non si incontrino mai o che si incontrino a intervalli di tempo regolari. In quest’ultimo caso, la grande forza esercitata da Giove può ‘perturbare’ in modo drastico l’orbita del planetesimo, che dopo un certo numero di incontri viene costretto ad allontanarsi dalla Fascia Principale, magari per avvicinarsi alla Terra. D’altro canto, le collisioni, ossia gli scontri tra un asteroide e l’altro, modellano la forma dei corpi stessi, la rotazione di un asteroide intorno al proprio asse, l’avvicinarsi all’una piuttosto che all’altra risonanza e il formarsi di sistemi binari.

Certamente, leggendo i quotidiani si ha l’impressione che negli ultimi anni grande attenzione sia stata rivolta allo studio di possibili collisioni tra la Terra e un asteroide. Il rischio non è più elevato rispetto al passato, bensì la tecnologia e i progressi scientifici permettono ora studi non così banali. Ad esempio, la rilevazione di un asteroide desta meno problemi e si può contare sulla collaborazione di diversi osservatori disseminati in tutto il mondo. Esistono poi
tecniche molto raffinate per seguire il corpo nella storia precedente all’ultima osservazione e per predirne il comportamento futuro. Infine, siamo testimoni di un considerevole entusiasmo e impegno al fine di sviluppare possibili contromisure per un eventuale incontro troppo ravvicinato.

ELISA MARIA ALESSI

giovedì 20 novembre 2008

Quando Plutone era un pianeta

L'età dell'innocenza raccontata da un'astronoma

Per quasi un secolo i bambini a scuola hanno imparato che il sistema solare è formato da nove pianeti: Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. I primi quattro sono piccoli e fatti di roccia, i secondi quattro sono invece giganti e composti da una miscela di gas. E poi c'era Plutone.

Plutone ha sempre avuto un fascino esotico, con le sue caratteristiche un po' fuori dal comune: l'ultimo ad esser stato scoperto, nel 1930, è il più lontano dal Sole, ma non sempre - la sua orbita altamente eccentrica interseca leggermente quella di Nettuno, che regolarmente prende il posto di pianeta più lontano. Inoltre, Plutone è estremamente piccolo, molto più piccolo dei quattro pianeti rocciosi più prossimi al Sole, niente più che un sasso in confronto ai più vicini pianeti gassosi, rispetto ai quali deve aver avuto una diversa origine.

Finché era un pianeta, Plutone aveva anche un satellite, Caronte, che non è però molto più piccolo di Plutone stesso, al contrario di tutti gli altri satelliti del sistema solare, sensibilmente più piccoli dei loro rispettivi pianeti. Caronte è stato identificato come satellite per ragioni essenzialmente storiche, in quanto scoperto oltre 40 anni dopo Plutone, ma sarebbe più opportuno considerare entrambi come un sistema binario di pianeti. O forse, non considerare pianeta nessuno dei due. Questa decisione, che a prima vista può sembrare un po' drastica, nasce da una serie di nuove scoperte, avvenute nell'ultimo decennio, di altri corpi celesti, ancora più distanti dal Sole e con massa simile a quella di Plutone. Si tratta di nuovi pianeti? E quanti altri se ne scopriranno nei prossimi anni? Queste ed altre domande hanno portato l'Unione Internazionale degli Astronomi a chiedersi cosa sia esattamente un pianeta.

Nel 2006 la risposta: una nuova, più precisa definizione di pianeta. Non basta che orbiti intorno al sole e che abbia una forma approssimativamente sferica, ci vuole una caratteristica aggiuntiva, legata alla dinamica del corpo stesso: per essere un pianeta, deve avere una massa significativamente più grande di tutti gli altri corpi che si trovano nella sua orbita. Con il suo scomodo compagno Caronte, Plutone non soddisfa questa definizione e così, dopo 76 anni, ha smesso di essere un pianeta.

Intendiamoci bene: nulla cambia sostanzialmente nel sistema solare, né tanto meno nell'universo. Plutone è sempre lì che gira intorno al sole, è solo la sua definizione ad essere diversa. Eppure leggere su un libro di scienze fresco di stampa o sui pannelli appena aggiornati di un planetario che i pianeti sono otto, e non nove, lascia spiazzati in molti, che si trovano a doversi abituare ad un cambiamento repentino, dopo esser stati convinti per anni che la situazione fosse diversa, e che non sarebbe mai mutata.

Anche nella vita di uno scienziato arriva un momento del genere, prima o poi, in cui Plutone smette di essere un pianeta. Nell'immaginario comune, gli scienziati sono dei personaggi carichi di entusiasmo, sempre sull'orlo di nuove, grandi scoperte. Sembra quasi che non abbiano mai perso quella incontenibile e genuina curiosità che probabilmente avevano sin da ragazzi, e che li ha portati a fare questo lavoro. Ma non è affatto così.

Molti, se non tutti, hanno uno o più periodi di forti dubbi e realizzano, dopo averla praticata attivamente per qualche tempo, che la scienza non è quell'attività meravigliosa che immaginavano da bambini, e non lo è per tanti, diversi motivi. Ci sono ovviamente quelli più squisitamente logistici, ovvero la precarietà, il doversi spostare continuamente, il futuro incerto che caratterizzano questo lavoro adesso, forse, come non mai. Certo contribuisce la sensazione di doversi vendere continuamente come dei clown perché chi finanzia sono burocrati senza alcun senso della scienza, accompagnata da uno scollamento con il resto della società, che degli scienziati pare non capire né i progressi né i problemi.

Ma la caduta delle maschere ha anche radici più sostanziali. Quando si raggiunge la consapevolezza che la scienza non potrà mai spiegare tutto, che ogni risultato si basa su una serie di assunzioni e approssimazioni, talvolta inesatte, diventa difficile ignorarla. Si inizia a fare scienza credendo di essere liberi, e ci si ritrova legati dentro meccanismi che si fatica a identificare. C'è chi finge di non vederli, e va avanti, un po' per inerzia. Ma c'è anche chi continua a guardarsi intorno, a tratti sfiduciato, però sempre curioso di scoprire cosa succederà di nuovo. C'è chi cambia campo, alla ricerca di un sogno meno perfetto dell'originale, ma forse più sopportabile. E c'è chi osserva la propria disillusione, e la accetta, e cerca di imparare anche da essa. Le maschere sono cadute, Plutone non è più un pianeta e la scienza non è straordinaria come si pensava un tempo. Ma Plutone adesso è un 'pianeta nano', e con esso ne conosciamo già altri quattro; ancora più lontano ci sono una miriade di altri oggetti che ancora aspettano di essere scoperti e classificati. La scienza non sarà straordinaria, ma la natura che essa cerca di descrivere lo è, e la curiosità nei suoi confronti non si spegne così facilmente.

CLAUDIA MIGNONE

Le immagini che accompagnano quest'articolo sono state scelte tra le opere in concorso nell'ambito del programma Catch a Star, una competizione per studenti delle scuole di tutto il mondo indetta annualmente da ESO, l'ente europeo per la ricerca astronomica (www.eso.org).

giovedì 23 ottobre 2008

Il silenzio dell'universo

Quando scienza e società dimenticano di parlare tra loro

Nel 1977 la NASA lanciava una coppia di sonde, Voyager I e II, alla volta di Giove e Saturno, i due pianeti maggiori alla corte del Sole. Nei dieci anni che seguirono, le sonde inviarono immagini senza precedenti dei due pianeti e dei loro satelliti, per poi proseguire, passando per Urano e Nettuno, verso i confini del sistema solare. Ancora oggi una delle due sonde è in contatto con la terra, ed entrambe proseguono nel loro viaggio attraverso l'ignoto. Ma non è questo il solo motivo che le carica di fascino: a bordo di entrambe le navicelle c'è un disco per grammofono che trasporta una raccolta di suoni caratteristici della nostra civiltà. Saluti in decine di lingue, insieme al rumore delle onde, del vento e dei tuoni. Versi di animali insieme ai discorsi del presidente degli Stati Uniti. E ancora Bach, Beethoven, Stravinsky, Chuck Berry, ritmi africani e canti tradizionali degli indiani d'America. Una versione moderna del classico messaggio nella bottiglia, un segnale della nostra presenza, lanciato verso possibili lontane civiltà extraterrestri. Sono un'astronoma. La mia formazione scientifica mi permette di considerare l'eventualità di un simile ritrovamento estremamente remota, se non praticamente impossibile. Tuttavia, ho sempre trovato quest'idea del disco molto poetica. Sarò forse ingenua, ma l'immagine di Glenn Gould che suona fluttuando insieme ai percussionisti senegalesi nell'immensità dell'universo riesce ancora ad emozionarmi.

Mentre se ne parlava tempo fa tra amici, qualcuno chiese che tipo di dispositivo ci fosse a bordo per riprodurre il disco. Io risposi che non lo sapevo, che probabilmente non c'è nessun dispositivo, del resto nello spazio il suono non si propaga. Lo dissi così, spontaneamente, come un'informazione del tutto ovvia, quasi superflua. Perché dal mio punto di vista è ovvio che nello spazio non si possa udire alcun suono: le onde sonore hanno bisogno di un mezzo per propagarsi, non si propagano nel vuoto. Lo spazio interstellare non è esattamente vuoto, ma rispetto agli standard terrestri è estremamente poco denso. In queste condizioni i suoni non possono propagarsi, è un dato di fatto, e dal mio punto di vista nemmeno tra i più sorprendenti. Evidentemente, questa informazione non era altrettanto scontata per i miei interlocutori. In particolare ricordo la reazione di una mia amica, filosofa, che rimase folgorata da questa notizia a lei del tutto nuova: aveva scoperto il silenzio dell'universo.

Da allora, quando ripenso a quell'episodio non vedo più la sonda Voyager, non vedo più l'immagine romantica di un pezzo di umanità che viaggia nel cosmo. Vedo solo le due reazioni opposte davanti al silenzio dell'universo: assenza di entusiasmo da un lato, eccesso di stupore dall'altro. Nel silenzio dell'universo vedo il silenzio della scienza. La distanza tra gli scienziati e il resto della società sembra essere diventata in alcuni casi abissale, e l'incomunicabilità tra queste due categorie umane rischia di sfociare in un fatale disinteresse reciproco. Difficile, ostica, non per tutti: così la scienza viene spesso percepita nell'immaginario comune. Quando se ne parla nei mezzi di comunicazione di massa, è sempre in termini spettacolari ma in fondo semplicistici, e il messaggio ricevuto dai lettori/ascoltatori è povero e confuso. Con questi presupposti, innescare un circolo vizioso sembra quasi inevitabile: ricevendo poco feedback da parte dei non esperti, gli scienziati si chiudono nella loro torre d'avorio e diventano così ancora più incomprensibili…

Personalmente, credo (e spero) che il divario non sia già diventato irrimediabilmente incolmabile. Da scienziata, non riesco ad immaginare il mio lavoro svincolato dal resto della società. È con questo intento che mi unisco a Futura: per cercare di sanare questo divario, per uscire dalla torre d'avorio e parlare di scienza a chi non se ne occupa. Per scuotere dal silenzio l'universo e scoprire ciò che ha da raccontare.

CLAUDIA MIGNONE

Immagine: Michaela Pavlatova