giovedì 30 aprile 2009

“Ho visto cose che voi umani…”


“… non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia.” Queste sono le ultime parole che l’androide Roy Batty pronuncia prima di morire, alla fine del film cult “Blade Runner” di Ridley Scott.

Ma se abbiamo la fortuna di puntare un potentissimo telescopio nella direzione di un evento cosmico, seppur di breve durata, questo non andrà perduto “come lacrime nella pioggia”: può anzi diventare oggetto di studio per gli astronomi. Così è successo, giovedì scorso, per una potentissima esplosione avvenuta ai confini dell’universo conosciuto, che è stata scoperta dal satellite Swift: questo strumento, nato in collaborazione tra la NASA, l’agenzia spaziale italiana (ASI) e quella britannica (STFC), passa in rassegna il cielo alla ricerca di questi eventi, detti Gamma Ray Burst (Lampi di Raggi Gamma, o GRB).

Si tratta di flash super-energetici che possono durare da meno di un secondo a qualche minuto. Non si conosce bene la loro origine, ma si suppone che vengano prodotti quando una stella, alla fine della sua vita, collassa in un buco nero: durante questo processo si formano getti di gas, che espellono materia ed energia fuori dalla stella. Se uno di questi getti punta verso la Terra, possiamo osservare una intensa emissione di raggi gamma.

I raggi gamma sono dei raggi luminosi caratterizzati da un’energia molto più elevata rispetto alla luce che possiamo osservare con i nostri occhi. Sono letali per gli organismi viventi, poiché distruggono i tessuti, ma per fortuna l’atmosfera terrestre funge da schermo e li assorbe. Questo però vuol dire che gli unici telescopi che possono osservare i raggi gamma direttamente si trovano su speciali satelliti fuori dell’atmosfera. Diversi fenomeni astronomici producono questo tipo di radiazione: nei GRB, in particolare, l’emissione gamma è seguita da una coda di emissione (detta “afterglow”) in altre frequenze, che può essere osservata anche dai telescopi sulla Terra: data la brevissima durata di questi eventi, però, la sincronizzazione tra telescopi in orbita e a terra deve essere perfetta.

L’evento osservato giovedì scorso, denominato GRB 090423 in base alla data della sua scoperta, è durato solo una decina di secondi, che però sono stati sufficienti a mettere in allerta una vasta rete di telescopi, tra cui il Telescopio Nazionale Galileo, l’osservatorio italiano situato nelle Isole Canarie. Grazie a queste osservazioni è stato possibile stabilire che si tratta dell’oggetto più lontano mai osservato finora: l’esplosione è avvenuta circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo era giovanissimo e aveva un’età di appena 600 milioni di anni, le prime stelle si erano formate solo da qualche centinaio di milioni di anni e, come questo evento dimostra, stavano già iniziando a morire.

CLAUDIA MIGNONE

Il lampo di raggi gamma GRB 090423, osservato ai raggi X dal satellite Swift (visibile al centro dell'immagine, in rosso e arancione). L'immagine ha un'estensione in cielo pari a un quinto del diametro della luna. Immagine messa a disposizione da NASA/Swift/Stefan Immler.

giovedì 23 aprile 2009

Un universo in continua espansione


La nostra attuale percezione dell'aspetto e delle dimensioni dell'universo è profondamente diversa da quella che avevamo solo un centinaio di anni fa. Nei primi decenni del secolo scorso, infatti, il concetto di galassie fuori dalla nostra non esisteva affatto: gli astronomi erano convinti che tutti gli oggetti che osservavano in cielo, ad occhio nudo o con i telescopi dell'epoca, facessero parte della nostra galassia, la Via Lattea, e che l'intero universo allora conosciuto si riducesse sostanzialmente ad essa.

Questa visione del mondo fu rivoluzionata nel 1929 grazie al lavoro degli astronomi statunitensi Slipher e Hubble: con le loro osservazioni, si accorsero che alcune “nebulose” si trovavano ad una distanza molto maggiore rispetto al diametro della nostra galassia. Scoprirono così che queste “nebulose” erano in realtà altre galassie, distinte e molto lontane dalla nostra: era nata così l'astronomia extra-galattica, e l'universo, nell'immaginario collettivo, era all'improvviso diventato immensamente più grande.

Inoltre, quasi tutte le galassie osservate da Hubble e Slipher mostravano una caratteristica molto importante: si stanno allontanando da noi, con una velocità tanto più grande quanto più sono lontane. E poiché la Terra non si trova in una posizione particolare all'interno dell'universo, l'unica spiegazione possibile è che tutte le galassie si allontanano l'una dall'altra, e che l'universo stesso si sta espandendo.

L'osservazione dell'espansione dell'universo calzava perfettamente con le predizioni che Einstein, Friedmann, Lemâitre ed altri fisici stavano ricavando proprio in quegli anni, basate sulla Teoria della Relatività Generale. Ma non dobbiamo pensare che l'universo si stia espandendo all'interno di un qualcosa di esterno e più grande: è lo spazio stesso, inteso come distanza tra oggetti (come le particelle o, in questo caso, le galassie), che si sta espandendo, e continuerà a farlo in futuro.

L'espansione dell'universo è ormai un dato assodato da circa 80 anni, confermato da dati sempre più precisi. La sua dinamica, tuttavia, è ancora oggetto di intenso studio: nell'ultimo decennio, infatti, gli astronomi hanno scoperto che circa 5 miliardi di anni fa l'espansione ha iniziato ad accelerare. Questo fenomeno viene comunemente attribuito ad una componente dell'universo, la cosiddetta “energia oscura”, di cui si sa ancora molto poco: comprendere meglio la natura di questa misteriosa componente è uno degli obiettivi chiave della ricerca astronomica dei prossimi anni.

CLAUDIA MIGNONE

Le galassie nell'universo che si espande si allontanano l'una dall'altra, proprio come i puntini sulla superficie di questo palloncino. Foto: J. R. Eyerman/Time & Life Pictures/Getty Images

giovedì 16 aprile 2009

Caos nel Sistema Solare


Molti scienziati ritengono che il XX secolo verrà ricordato per tre grandi teorie: la relatività, la meccanica quantistica e la teoria del caos. Quest’ultima trova riscontro in molteplici aspetti della realtà: dallo studio delle correnti oceaniche al flusso sanguigno, dalle previsioni atmosferiche al movimento dei corpi nel Sistema Solare. Il nome ‘teoria del caos’ deriva dal fatto che essa analizza sistemi dinamici (cioé che si evolvono nel tempo) apparentemente disordinati, cercando però un ordine fondamentale a cui questi obbediscono.

Il primo vero esperimento a riguardo fu compiuto dal meteorologo Edward Lorenz intorno al 1960. Con l’aiuto di un computer simulò varie volte il movimento ascendente di aria calda, prendendo sempre gli stessi valori iniziali per i parametri del sistema considerato. Sorprendentemente, incontrò risultati diversi in ogni simulazione. Com’era possible? Lorenz realizzò che i numeri introdotti all’inizio erano leggermenti diversi in ogni caso: seppur piccola, questa differenza aveva generato comportamenti per nulla simili tra loro. Senza volerlo, aveva scoperto il fenomeno della sensibilità alle condizioni iniziali.

Questo effetto è noto comunemente come effetto farfalla: una variazione piccola (tanto quanto lo sbattito di ali di una farfalla) all’inizio dell’evoluzione di un sistema è in grado di cambiarne drasticamente il comportamento a lungo termine. Queste antiche rime inglesi possono rendere l’idea:

‘For want of a nail the shoe was lost.
For want of a shoe the horse was lost.
For want of a horse the rider was lost.
For want of a rider the battle was lost.
For want of a battle the kingdom was lost.’


La mancanza di un piccolo chiodo ha portato alla perdita di un intero regno!

È importante ricordare che i sistemi dinamici in questione seguono leggi completamente deterministiche, il che significa che conoscendo con estrema precisione lo stato del sistema a un dato momento è possibile ricostruire il suo stato passato o predire quello futuro. Di fatto non è mai possibile ottenere questa grande precisione: in ogni misura fisica esiste sempre un errore. Ecco dunque che due sistemi identici con stati iniziali che differiscono per un’esigua quantità tenderanno rapidamente a comportarsi in modo molto diverso tra loro.

Le fondamenta per la teoria del caos furono poste da Henri Poincaré nell’ambito della meccanica celeste. Nel 1887, il Re Oscar II di Svezia indisse una competizione matematica a livello internazionale. Uno dei problemi proposti fu la soluzione delle equazioni che regolano il movimento di un arbitrario sistema planetario. Poincaré decise di partecipare al concorso, considerando un caso speciale del problema in questione: si dedicò all’analisi qualitativa del comportamento di un pianeta interagente con altri due (il problema dei tre corpi). Quello che scoprì fu del tutto inaspettato: il movimento di un pianeta in un sistema a tre corpi non è prevedibile. In termini matematici, è un problema non integrabile, non esiste cioé una soluzione generale capace di descrivere tutti i regimi dinamici accessibili al sistema.

Nel Sistema Solare, queste considerazioni trovano applicazione, ad esempio, nello studio della sua formazione e stabilità, nell’approssimazione del movimento di corpi minori, come asteroidi e comete o nell’analisi del movimento di rivoluzione e rotazione dei satelliti naturali. Prendiamo il caso di Iperione, una delle lune di Saturno. Grazie alle fotografie ottenute dalla sonda Voyager, è stato possibile vedere che questo corpo è dotato di una forma molto irregolare. Questo fatto si spiega pensando che eventuali frammenti staccatisi da Iperione si allontanano molto rapidamente a causa della forte dipendenza dalle condizioni iniziali.

Per quanto riguarda i pianeti, recenti studi hanno evidenziato che quelli esterni hanno un moto regolare, cosa che non succede per quelli interni. Il comportamento caotico in questo caso si manifesta su tempi molto molto lunghi, dell’ordine di milioni di anni, portando a variazioni nell’eccentricità delle loro orbite.

ELISA MARIA ALESSI

Immagine: Iperione, una delle lune di Saturno, con la sua forma spiccatamente irregolare. L'immagine è stata scattata nel 2005 dalla sonda Cassini-Huygens, in orbita intorno a Saturno dal 2004.

giovedì 9 aprile 2009

Archeologia astronomica


Un ammasso globulare è un gruppo di centinaia di migliaia di stelle, tenute insieme dalla gravità. Questi oggetti si trovano nelle regioni esterne delle galassie: l’alone della Via Lattea ne contiene oltre 150, e galassie più grandi della nostra fino a qualche migliaio. I dettagli della loro formazione non sono ancora del tutto chiari, ma una cosa è certa: le stelle che fanno parte di un ammasso globulare si sono formate tutte contemporaneamente. Questa caratteristica li rende particolarmente interessanti.

Quando un astronomo osserva un campione di stelle sparse all’interno di una galassia, sta guardando, in generale, oggetti che si sono formati in epoche diverse e con diverse condizioni iniziali. Quando osserva un ammasso globulare, invece, quello che vede sono stelle formatesi nella stessa epoca ed a partire dagli stessi elementi: l’unico parametro che varia da una stella all’altra è la massa.

La massa di una stella determina, fra l’altro, la durata della sua vita: la fase principale, caratterizzata dal bruciamento di idrogeno in elio nel nucleo, è tanto più rapida quanto più la stella è massiccia. Quando le riserve di idrogeno stanno per esaurirsi, inizia una fase di espansione detta gigante rossa, seguita da un’esplosione (supernova) nel caso di stelle massicce, oppure da un collasso, nel caso di stelle di piccola massa (come quella del Sole) che porta alla formazione di una nana bianca. L’evoluzione di una stella dipende, dunque, dalla sua massa.

Osservare un ammasso globulare vuol dire osservare una popolazione di stelle caratterizzate dalla stessa età ma da diversa massa: stelle che si trovano, quindi, in diverse fasi evolutive. Gli ammassi globulari rappresentano così una possibilità unica a disposizione degli astronomi per studiare i processi di evoluzione stellare, troppo lenti per poter essere analizzati in tempo reale da noi umani.

Confrontando il numero di stelle che si trovano nei diversi stati evolutivi, più o meno avanzati, e conoscendo la distanza dall’ammasso, è possibile calcolarne l’età; è stato stimato, in questo modo, che si tratta di oggetti estremamente vecchi. I più vecchi hanno oltre 13 miliardi di anni: veri e propri reperti archeologici, risalenti ad un’era in cui il Sole e la Terra ancora non esistevano, e l’Universo aveva poco più di un miliardo di anni di età.

CLAUDIA MIGNONE

L'ammasso globulare M3, che dista 33.000 anni luce dal Sole e contiene circa 500.000 stelle. I diversi colori delle stelle, visibili anche in questa immagine, identificano diverse fasi evolutive. Immagine ripresa con il Telescopio di Loiano (Bologna).

giovedì 2 aprile 2009

Cento ore per scoprire l’Universo


Inizia oggi una delle iniziative chiave dell’Anno Internazionale dell’Astronomia, forse la più globale di tutte: “100 ore di astronomia”. Per quattro giorni, da oggi fino a domenica 5 aprile, astronomi professionisti, università, centri di ricerca, astrofili, appassionati, enti locali e associazioni di 135 paesi del mondo saranno coinvolti in una non-stop di attività per avvicinare il grande pubblico ai misteri del cosmo.


Sarà possibile assistere in diretta ad una serie ininterrotta di collegamenti tramite webcast sul sito www.100hoursofastronomy.org. Il programma internazionale prevede per oggi, 2 aprile, un susseguirsi di servizi in diretta dai più grandi centri di ricerca del globo, con interventi degli astronomi che vi lavorano; domani, invece, sarà la volta degli strumenti astronomici, protagonisti dell’evento planetario “Il giro del mondo in 80 telescopi”. Durante questa staffetta tra i più grandi osservatori mondiali e spaziali, ciascuno di essi trasmetterà in diretta per 20 minuti le attività di ricerca che vi si stanno svolgendo in quel momento, e le immagini del cielo che vengono riprese dal vivo.

Ad esempio, nella serata di venerdì, tra le 19.20 e le 19.40, sarà possibile ammirare in diretta le immagini riprese dal Telescopio Spaziale Hubble. Il contributo italiano all’avvenimento prevede un collegamento dal Telescopio Nazionale Italiano Galileo, situato sulle Isole Canarie (dalle ore 1.20 alle ore 1.40, durante la notte tra venerdì e sabato) e dal Large Binocular Telescope, un telescopio binoculare con due specchi del diametro di 8 metri ciascuno, che si trova in Arizona e di cui l’Italia è partner, insieme alla Germania e agli Stati Uniti (tra le 7.40 e le 8.00 di sabato mattina).

Ma non si tratta soltanto di un evento virtuale: durante l’intera durata della manifestazione, mostre, conferenze ed attività di osservazione del cielo saranno possibili in tutto il mondo. In particolare, sabato 4 sarà dedicato al “Global Star Party”, con osservazioni pubbliche e gratuite ai telescopi, mentre domenica 5 si festeggerà il “Sun Day”, una celebrazione del Sole e della sua importanza per la vita sul nostro pianeta. Le numerose iniziative in programma in Italia si possono trovare sul sito www.astronomy2009.it; per quanto riguarda le iniziative regionali, si veda l’inserto a destra nella pagina.

La cerimonia inaugurale della manifestazione si terrà oggi presso il Franklin Institute di Philadelphia, che ospita la mostra “Galileo, i Medici e l’Età dell’Astronomia”, dove è possibile ammirare uno dei due unici esemplari rimasti dei telescopi costruiti dal grande astronomo e fisico italiano 400 anni fa. L’inaugurazione si potrà osservare in diretta sul web questo pomeriggio, a partire dalle ore 17.00.

CLAUDIA MIGNONE

Siamo polvere di stelle


Secondo le teorie cosmologiche più accreditate in ambito astrofisico, l'Universo primordiale era costituito solamente da pochi elementi chimici, sostanzialmente solo Idrogeno ed Elio. Questi due atomi sono infatti i più semplici in natura, essendo costituiti dal minor numero di protoni, neutroni ed elettroni. Uno dei quesiti fondamentali per la comprensione dell'evoluzione dell'Universo e' quindi l'origine dei circa 100 elementi oggi presenti sul nostro pianeta.

E' in qualche modo ovvio che questi debbano essere sintetizzati a partire dagli atomi di Idrogeno ed Elio disponibili fin dalle epoche più remote: ad esempio alcuni elementi molto semplici si possono formare per "spallazione", cioè a causa di collisioni energetiche tra atomi di Idrogeno/Elio e/o radiazione.

Tuttavia, la sintesi degli elementi cosiddetti "pesanti" non può avvenire spontaneamente nei freddi spazi interstellari, ma richiede ben determinate condizioni di pressione e temperatura, necessarie per innescare le reazioni di fusione nucleare. Tali condizioni sono tipicamente soddisfatte nelle regioni più interne delle stelle. Nelle prime fasi della propria vita, queste producono energia dalla conversione di due atomi di Idrogeno in uno di Elio, ma durante la loro evoluzione possono avere diversi cicli di bruciamento, che utilizzano gli atomi sintetizzati durante i cicli precedenti come nuovo "combustibile" per reazioni sempre più complesse. In questo modo vengono via via prodotti elementi sempre più "pesanti" (tra cui il Carbonio e l'Ossigeno così necessari allo sviluppo della vita sulla Terra come noi la conosciamo), fino alla produzione del Ferro. Fino a questo elemento la stella, infatti, ha potuto riutilizzare gli elementi da essa stessa sintetizzati, dal momento che le fusioni nucleari fin qui considerate sono reazioni che permettono di estrarre energia come risultato della fusione (ad esempio combinando due atomi di Idrogeno si ottiene un atomo di Elio più un rilascio di energia). Al contrario, per fondere due atomi di Ferro è necessario fornire energia al sistema dall'esterno: per questo motivo, gli elementi più pesanti del Ferro si possono formare solo nell'ambito di alcuni degli eventi più energetici dell'Universo, le esplosioni delle stelle sotto forma di Supernova. Durante queste ultime, traumatiche fasi della vita stellare vengono quindi sintetizzati gli elementi più pesanti, compresi molti elementi radioattivi (ad esempio l'Uranio ed il Torio). Altri elementi, infine, sono il risultato del decadimento di questi elementi radioattivi in atomi stabili.

L'importanza delle esplosioni di supernova non e' solo limitata alla produzione degli elementi più "pesanti" del Ferro. Infatti, durante questi eventi gli strati esterni della stella, e con essi gli elementi che essa ha prodotto nel corso della propria evoluzione, vengono espulsi nello spazio interstellare, andando ad arricchire il gas. In questo modo, nuovi elementi sono messi a disposizione della successiva generazione di stelle e pianeti che dal quel gas si formeranno, e così via fino a distribuire i nuovi elementi in tutta la galassia.

FABIO FONTANOT

In una splendida immagine ripresa dal Telescopio Spaziale Hubble, la Nebulosa del Granchio, quel che resta dell'esplosione di una Supernova: fenomeni come questo disperdono i metalli prodotti della stella durante la sua evoluzione nel mezzo interstellare circostante. Immagine NASA/ESA.